Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliLa città postindustriale di oggi è un retaggio delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, o meglio, del progetto Italyart - Olimpiadi della Cultura, il paradigma culturale che ha accompagnato i XX Giochi Olimpici Invernali con un calendario coordinato di eventi di arti visive, teatro, danza, musica, cinema, letteratura, storia e società ridisegnando il paesaggio e il sistema culturale cittadini. L’obiettivo di valorizzare la cultura del Paese ospitante e il legame tra sport e cultura, con un programma che offrisse il meglio della cultura italiana (e internazionale) dalla tradizione alle realtà contemporanee, ha di fatto portato a battesimo quel «modello Torino» fatto di progetti e sinergie tra vari ambiti, enti e istituzioni, pubbliche e private, che è ancora oggi sulla bocca di tutti.
Dietro le quinte c’era (e c’è ancora) Evelina Christillin, vice presidente del Toroc, il Comitato per l’Organizzazione dei XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006 (di cui ha curato anche tutta la sezione Olimpiadi della Cultura). Entrata giovanissima nella Nazionale di sci alpino, laureata in Storia e Demografia Storica, ha maturato un curriculum costellato di cariche, tra cui dirigente sportivo (prima e unica donna) nella Giunta Nazionale del Coni (2001-05), consigliere nel Cda del Teatro Regio di Torino (2006-10), presidente per due mandati consecutivi della Fondazione del Teatro Stabile di Torino (nel 2007 e nel 2015), presidente dell’Enit - Agenzia Nazionale Italiana del Turismo (2015-18). Dal 2012 è presidente del Museo Egizio, tra gli incarichi attuali quelli di membro aggiuntivo in qualità di rappresentante femminile della Uefa nel Consiglio Fifa (Fédération Internationale de Football Association) e di membro del nucleo operativo del Tavolo tecnico per la tutela dei minorenni nel mondo dello sport. Nella sua vita cultura e sport convivono in equilibrio perfetto: due anime di una lingua universale che lei stessa ha più volte definito «l’esperanto del XXI secolo».
Presidente Christillin, finiti gli effetti più immediati del grande evento olimpico la città ha vissuto momenti di stagnazione (la crisi economica del 2008-12, il decentramento industriale, il Covid). Oggi, quasi 20 anni dopo, a che punto è la Torino postindustriale? Che cosa resta del «modello» Torino 2006?
Resta soprattutto lo spirito dei torinesi. Eravamo silenziosi, discreti e poco inclini a mostrare in pubblico quello che eventualmente avessimo. Le Olimpiadi le fai una volta nella vita, se le fai. Però dalle Atp Finals all’Eurovision, da Artissima al Salone Internazionale del Libro a Terra Madre, alle Final Eights di Basket, sono tante le occasioni in cui Torino si è aperta con ospitalità e voglia di partecipare anche in modo concreto: il volontariato per i grandi eventi è una rete nata con le Olimpiadi ancora molto attiva. Sono rimaste delle buone infrastrutture alla città, l’Oval Lingotto, l’ex Palaisozaki (Inalpi Arena), solo per fare un paio di esempi. In montagna il discorso è un po’ più problematico. Al di là del programma comune, c’è stato un modo di lavorare diverso che ha messo a sistema tante realtà: Palazzo Madama era chiuso da quarant’anni, sono state aperte le Fonderie Limone di Moncalieri, è nata la prima carta abbonamento musei, l’offerta culturale è esplosa da allora in poi.
Una bella eredità materiale e immateriale in una città che però si è ritrovata a fare i conti con il decentramento industriale e con un apparente forte declino della propria capacità di iniziativa.
Non possiamo immaginare che tutta la città diventi Las Vegas e che viva di eventi e di paillettes. Ho cominciato giovanissima a lavorare all’Ufficio stampa della Fiat. Era l’inizio degli anni ’80, allora la Fiat contava oltre 300mila dipendenti (57.500 solo a Mirafiori, dai cui stabilimenti uscivano in media 5mila auto al giorno, Ndr), e di fatto, dalla culla alla tomba, formava un po’ la realtà torinese. Obiettivamente adesso su Torino il cambiamento è molto forte (vuoi per ragioni di mercato, vuoi perché sono cambiati i tempi) e pensare di sostituire un moloch così grosso con il tennis, le Olimpiadi, il teatro o i musei sarebbe sbagliato e illusorio. Si cerca comunque di immaginare altre strade: quello che è successo sarebbe difficile per chiunque da assorbire. La forza più grande di questa città, anche culturalmente, è quella dell’artigianato prima e dell’industria poi. Ci sono realtà nuove e straordinarie di imprenditoria. Per esempio nel campo delle nuove tecnologie c’è Newcleo, la startup del nucleare fondata da Stefano Buono, Reply, la società italiana di consulenza informatica, outsourcing e applicazioni di digital services fondata da Mario Rizzante, Argotec, l’azienda di ingegneria aerospaziale creata da David Avino. Stanno nascendo delle iniziative imprenditoriali nuove. Ci vuole tempo.
Non è la prima volta che Torino si reinventa.
Nessuno di noi c’era, ma quando nel 1865 Torino ha perso il ruolo di capitale del Regno d’Italia penso che abbia vissuto qualcosa di simile. Basti pensare che da qui se ne andava via tutto quello che fa di una capitale una capitale, i Ministeri, l’Esercito, la Banca d’Italia, le relazioni internazionali. In piazza San Carlo c’è una lapide che ricorda i morti della Strage di Torino del 1864, un violento scontro tra il Regio Esercito e gruppi di civili armati di bastoni che protestavano contro lo spostamento della capitale a Firenze. Adesso per fortuna non è così, ma bisogna adattarsi ai tempi e alla realtà senza piangersi addosso e senza pensare sempre che ti abbiano portato via qualcosa.
Il suo Museo Egizio è un esempio di resilienza, un nuovo modello di cultura di impresa.
Siamo la dimostrazione che se uno crede nelle cose che fa, poi magari ci riesce. Abbiamo progettato il nuovo Museo Egizio nel 2012-15, semplicemente basandoci sui contributi. Non riceviamo mai contributi sul conto economico, ma solo su progetti speciali. In quel caso erano stati erogati per la rifunzionalizzazione del museo 50 milioni di euro dai soci fondatori. Per il bicentenario (1824-2024), invece, abbiamo cercato di sollecitare anche i privati: questa seconda tranche di lavori è stata finanziata non solo dal Ministero della Cultura, ma anche da sponsor (Trenitalia, Intesa Sanpaolo Gallerie d’Italia) e donatori privati (Gruppo Alpitour, Lavazza, Reale Mutua). Certo nel frattempo il Museo è cambiato e ha acquisito una credibilità e una visibilità che prima non aveva. Un esempio: la mostra dedicata a Nefertari, con i reperti della nostra collezione, che nel 2017 abbiamo voluto dare in prestito all’Ermitage di San Pietroburgo senza guadagnare nulla, ma che ci ha aperto i cancelli del mondo. Aziende grandi e medio piccole, italiane e piemontesi ora vogliono collaborare con noi, da Francorosso ai fiorai di via Lagrange, che sarà completamente rivestita di ulivi. Ci saranno tantissime iniziative a testimoniare questa grande coralità di interventi. Avremo anche due artisti contemporanei in residenza in museo, Ali Cherri e Sara Sallam, che sta lavorando con fornitori di bronzo locali per realizzare un’opera site specific.
Per crescere servono dunque cultura di impresa e cultura del progetto.
Bisogna abbinare dei progetti credibili a delle realtà che funzionano e a Torino ce ne sono tante: il Museo Egizio, il Museo del Cinema, i Musei Reali, la parte delle arti dello spettacolo dal vivo, la Film Commission, il Teatro Stabile, il Teatro Regio. Inoltre c’è molta collaborazione tra noi enti culturali per fare dei progetti comuni in una città che ha anche il vantaggio di avere vicino tutta la zona dell’enogastronomia, dalle Langhe al Monferrato, i parchi e le montagne.
Quanto sono importanti ricerca e collezione nel patrimonio museale e quindi cittadino?
Il mantra del Museo Egizio è la ricerca. La prima cosa che ho fatto da presidente del Museo Egizio è stato mettere in piedi uno staff scientifico che studiasse la collezione «dimenticata» per anni nei magazzini. Nessuno l’aveva studiata, pubblicata, digitalizzata, comunicata. È stata una scelta imprenditoriale, siamo arrivati in tre anni a uno staff di 22 persone che dal 2015 al 2017 sono stati un costo fisso messo a budget solo per studiare, rivalutare e riqualificare la collezione. Il primo risultato è stato la mostra su Nefertari. Le tre sale che abbiamo inaugurato a inizio ottobre sono la dimostrazione plastica di come si faccia ricerca artistica e biografica con una grande multidisciplinarietà. Abbiamo lavorato con le università, con i centri di ricerca che si occupano specificamente di pigmenti, legni, ceramiche, pietre, è stato fatto un lavoro corale enorme di archeometria. Per il bicentenario c’è un discorso di restituzione alla città, avremo spazi nuovi e pezzi di museo aperti gratuitamente: il Tempio di Ellesija, la sala ipogea immersiva di mille metri quadrati, il giardino e la piazza coperta. L’unica cosa di quelle nuove inserita nel percorso a pagamento sarà la Galleria dei re. L’inclusività, la formazione, la partecipazione e la permeabilità fanno parte della missione del museo, che deve essere un parte viva di una comunità.
E genera una ricaduta economica importantissima spalmata su tutto l’anno.
L’impatto è veramente notevole su tutto il territorio commerciale circostante dell’area metropolitana e soprattutto di quella prossima al museo, negozi, bar ecc. Uno studio della Fondazione Santagata quantifica in 412,6 milioni di euro la ricaduta economica del Museo Egizio su Torino, intesa come città metropolitana. Ma è importante che ci sia un’offerta complessiva che faccia rimanere le persone a Torino.
Conta l’apporto dei privati?
Il pubblico ha sempre meno soldi, ma non si può pretendere che i privati paghino le bollette o le spese ordinarie, non sarebbe neanche giusto, a quello ci devi pensare tu. L’aiuto dei privati arriva se hai dei progetti credibili e convincenti. C’è sempre più attenzione da parte dei privati ad abbinarsi a un brand riconoscibile e che abbia appeal internazionale, è un di più per qualunque imprenditore.
Torino è una città internazionale oppure che cosa le manca per esserlo?
Le mancano voli aerei e collegamenti, con la Francia, la Liguria, treni notturni da e per Milano.
Gli eventi sportivi restano un grande volano per la cultura e la città.
Sì, la Juventus di nuovo in Champions League, le Universiadi invernali, anche tutta la parte delle gare ciclistiche di quest’anno, il Tour de France, il Giro d’Italia. Costano molto, ma danno grande visibilità e ritorno.
Anche gli impianti sportivi sono luoghi di formazione come i musei e le scuole, ma spesso lasciati un po’ andare.
Il pubblico fa fatica a gestire quello che c’è e lo stato della manutenzione spesso non è adeguato. È un dispiacere, soprattutto per i giovani, che hanno poca possibilità di praticare sport. Adesso c’è una sensibilità maggiore per la sostenibilità sia finanziaria che ecologica di quello che si costruisce.
Montagne olimpiche e sport invernali. Bisognerà reiventarsi anche qui o sapremo salvaguardarli dal riscaldamento globale?
Serve una presa d’atto collettiva da parte dell’Europa, e non solo. Se le temperature continuano ad aumentare con questi ritmi, la neve ce la possiamo dimenticare: gli sport del ghiaccio, paradossalmente, saranno forse gli unici che si potranno continuare a fare al di là del cambiamento climatico.
Ma per esempio in tutta la Val di Susa non c’è un palazzetto del ghiaccio.
Ce n’è uno in Val Pellice (a Torre Pellice). Poco. Ci dovranno pensare, chi voglia avere delle facilities nelle località di villeggiatura non può che immaginare qualcosa che non sia così strettamente dipendente dalla nevicata: sopra i 2mila metri forse si scierà ancora. Sotto non si può pianificare nulla, se non pensare a investimenti folli sull’innevamento artificiale, che poi spesso non regge, perché se fa caldo non attecchisce e se c’è poca acqua non si può toglierla all’uso residenziale o all’agricoltura.
Considera l’esclusione di Torino alle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 un’occasione mancata?
È un dispiacere ed è un’occasione mancata soprattutto per la montagna, senza voler tornare al disastro della pista da bob di Cesana o del trampolino di Pragelato (noi come Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Torino 2006 avevamo proposto di utilizzare la pista francese di La Plagne, ma l’allora Governo italiano e il Coni dissero di no e il risultato è sotto gli occhi di tutti). Ora quegli impianti sarebbero potuti essere riutilizzati, avere qualche senso e non ci sarebbe stato bisogno di sfregiare Cortina per costruire un’altra pista da bob.
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