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Francesco Bandarin
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A due anni dall’inizio dell’ultima offensiva, Gaza è oggi una città disgregata. Secondo le stime più recenti, oltre 67mila persone hanno perso la vita e più di 169mila sono rimaste ferite. Circa 1,9 milioni di abitanti, quasi il 90% della popolazione, vivono da sfollati interni. Il 60% delle abitazioni e l’80% delle attività commerciali sono stati distrutti, l’88% delle scuole è inagibile, e acqua, elettricità e servizi sanitari sono quasi del tutto collassati.
A questa catastrofe umanitaria si aggiunge una tragedia meno visibile ma altrettanto profonda: la distruzione del patrimonio culturale e naturale di Gaza, eredità di cinquemila anni di civiltà. Le città della Striscia (Gaza City, Khan Yunis, Deir al-Balah, Rafah) hanno perso gran parte del loro tessuto urbano storico. Quartieri come Shuja’iya, antica area mercantile di epoca mamelucca, o Daraj, noto per le sue corti e moschee ottomane, sono oggi cumuli di macerie.
Molti dei principali monumenti religiosi e civili sono stati colpiti: la Grande Moschea di Gaza, costruita nel XIII secolo sui resti di una basilica bizantina; la Chiesa di San Porfirio, una delle più antiche del Medio Oriente; il Museo Al-Pasha, testimonianza della storia ottomana e coloniale; e il Monastero di Sant’Ilarione, fondato nel IV secolo, tra i complessi monastici più importanti della regione. Oltre 200 siti archeologici e monumentali censiti dalle autorità palestinesi risultano distrutti o gravemente danneggiati. È una perdita irreversibile di memoria, conoscenza e identità.
Anche il patrimonio archeologico sommerso e costiero è compromesso. Il sito di Anthedon, l’antico porto greco-romano che dà nome all’iniziativa internazionale oggi in corso, è stato più volte colpito, e i mosaici bizantini recentemente restaurati giacciono sotto cumuli di detriti. La linea di costa, un tempo viva di attività di pesca e commercio, è ora inaccessibile e contaminata.
Il patrimonio naturale soffre della stessa devastazione: il Wadi Gaza, che era riserva naturale e corridoio ecologico protetto, è diventato una discarica a cielo aperto; la falda acquifera è quasi inutilizzabile per salinizzazione e inquinamento; l’agricoltura, principale risorsa del sud della Striscia, è compromessa dalla distruzione dei terreni e dall’impossibilità di irrigare. La perdita del paesaggio culturale e ambientale toglie alla popolazione non solo risorse, ma punti di riferimento simbolici, gli spazi di vita quotidiana che davano forma all’identità collettiva.
In questo scenario, parlare di «ricostruzione» significa ridefinire la priorità dell’intervento: non solo costruire muri, ma ricostruire la società. La ricostruzione deve partire dalle persone e dal loro rapporto con i luoghi, ponendo al centro memoria, identità e partecipazione.
È necessario un lavoro di documentazione sistematica (rilievi, mappature, archivi digitali, raccolta di testimonianze) per salvare le tracce materiali e immateriali di ciò che è andato perduto. Ma è altrettanto essenziale riattivare il patrimonio come motore di resilienza, reintegrandolo nella vita quotidiana: le scuole, i mercati, le moschee, i giardini pubblici possono tornare a essere laboratori di comunità, spazi in cui si ricostruiscono relazioni, fiducia e senso di appartenenza.
Questa visione è coerente con l’esperienza maturata in altri contesti postbellici, da Mosul ad Aleppo, dove il recupero del patrimonio, anche in condizioni estreme, ha contribuito alla ricomposizione del tessuto civile e al rilancio economico.
In questo quadro, un ruolo cruciale potrebbe e dovrebbe essere svolto dall’Unesco, che possiede competenze e reti operative per promuovere la tutela del patrimonio in situazioni di conflitto. L’organizzazione, che già in passato ha avviato missioni di emergenza in Siria, Iraq e Yemen, potrebbe coordinare un programma per la salvaguardia d’emergenza dei beni culturali di Gaza, coinvolgendo le autorità palestinesi, le università, le Ong e le comunità locali. L’inserimento di Gaza in un quadro regionale di cooperazione mediterranea, anche attraverso la rete delle Città Creative e dei programmi culturali del Mediterraneo, offrirebbe una prospettiva di lungo periodo fondata su educazione, cultura e sviluppo sostenibile.
Da questi principi nasce la Anthedon Initiative-Gaza: A Vision of Hope, promossa da Heritopolis, Ong internazionale parte del network UN-Habitat MetroHub, in collaborazione con università e centri di ricerca tra cui l’Eth di Zurigo. L’iniziativa propone un modello di ricostruzione umana e culturale, in cui la memoria dei luoghi guida la rinascita sociale. Attraverso programmi di formazione, laboratori locali e progetti pilota, Anthedon intende ricostruire Gaza «dal basso», mettendo in relazione patrimonio, comunità e innovazione.
Dalla stessa visione è nata LEVANT 2050, una piattaforma transfrontaliera che estende il metodo a tutto il Levante: da Gaza ad Amman, da Gerusalemme a Beirut, immagina una rete di città interconnesse dove la cooperazione su risorse, cultura e ambiente diventa strumento di pace. Nel suo «Living Lab», architetti, studenti, comunità e amministrazioni lavorano insieme, unendo saperi tradizionali e tecnologie digitali («code and clay») per prototipare nuove forme di abitare e di governance partecipativa.
In un Medio Oriente frammentato, queste iniziative non offrono un piano imposto dall’alto, ma un linguaggio comune: la ricostruzione come atto di fiducia e di riconciliazione.
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