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Flaminia Gennari Santori. Foto: Alberto Novelli

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Flaminia Gennari Santori. Foto: Alberto Novelli

Gennari Santori: «Di questa esperienza porterò con me il divertimento filosofico»

La direttrice uscente delle Gallerie Nazionali di arte antica-Palazzo Barberini e Galleria Corsini traccia un bilancio dei suoi due mandati di direzione

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Arianna Antoniutti

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Flaminia Gennari Santori ha diretto, fino al 15 novembre, le Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini e Galleria Corsini. La storica dell’arte romana era dal 2015 alla guida di un museo con due sedi, divenute, dal medesimo anno, istituto autonomo. Il completo riallestimento di Palazzo Barberini (iniziato nel 2017 con le sale dedicate al Settecento, e terminato nel 2022 con gli ambienti al piano terra che ospitano le opere del Trecento e del Quattrocento) è stato sicuramente il principale obiettivo della sua direzione, ma non l’unico. Le abbiamo chiesto di tracciare un bilancio dei suoi due mandati.

Si tratta di un bilancio, ovviamente, molto positivo. Ciò che mi ero prefissa all’inizio del mio primo mandato, la visione che ho avuto nel momento in cui mi sono insediata, nel novembre di otto anni fa, posso ritenerlo compiuto. La visione, essenzialmente, era così riassumibile: fare di questi due luoghi, finalmente, le Gallerie Nazionali di arte antica. Di due diverse entità, una collezione storica e un palazzo, fare un organismo identificabile, con una missione e un’identità chiare. Questo era il primo nodo; il secondo era dare un’interpretazione, delle collezioni e degli spazi, che fosse quanto più stimolante e aperta e, al tempo stesso, calata in una ben precisa serie di questioni eminentemente storico artistiche e disciplinari. Posso dire che i risultati sono ampiamente visibili, sia in contesto nazionale sia in quello internazionale.


Palazzo Barberini è divenuto un museo che, a Roma, oggettivamente mancava. Un luogo in cui, a differenza delle altre collezioni storico-artistiche romane, legate ad allestimenti precisi, immodificabili (pensiamo in primo luogo alla Galleria Borghese), gli allestimenti possono invece essere mutati. Un museo, inoltre, con uno spazio per mostre temporanee, adeguato ai più moderni standard, e in grado di ospitare proposte anche più laterali, legate al contemporaneo. Quanto mi ero riproposta di fare è stato fatto, dalle grandi mostre, come «L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini», terminata nel mese di luglio e dedicata a papa Barberini nel quarto centenario della sua elezione, ai lavori per la caffetteria di Palazzo Barberini, la cui gestione è stata da poco aggiudicata e che troverà collocazione nel giardino, negli spazi appena restaurati della serra.


Entrando ora nel Palazzo, così efficacemente riallestito, quale si augura sia la prima reazione da parte del pubblico?

Volevo, sin da subito, che la prima percezione fosse la limpidezza dell’allestimento. In esso le opere sono «parlanti», credo infatti che siano le opere a dover comunicare. Gli apparati testuali, certo, devono esistere, ma vanno intesi come spunti, non precetti. È il museo stesso a dover essere parlante, permettendo allo stesso tempo al pubblico la scoperta, la possibilità di creare connessioni e percorsi. Immaginavo un luogo dove fosse molto chiaro questo doppio binario, da un lato la collezione, dall’altro il palazzo, che è un’opera d’arte in sé, in quanto manifesto dell’architettura barocca. Questa è stata una grande sfida, perché avevamo, oltre alla raccolta di pittura, un palazzo, e una famiglia, da raccontare.

Mi stava inoltre a cuore che il pubblico di Palazzo Barberini avesse la curiosità di visitare la Galleria Corsini, e viceversa, perché la complementarietà dei due luoghi è fondamentale. Come è fondamentale, in entrambi, la centralità dello spettatore. A Corsini, ad esempio, partiamo da una collezione, quella del cardinale Neri Corsini, allestita secondo i principi protoilluministi della connoisseurship del XVIII secolo, in cui al centro era proprio lo spettatore. Quello di chi guarda, in
una quadreria, è un atto basato su una sorta di ginnastica intellettuale, diversamente da quanto avverrà con il museo ottocentesco, che è molto più lineare nella sua articolazione. Tale centralità di chi guarda è quanto abbiamo voluto sempre tenere a mente, portandolo in superficie sia a Palazzo Barberini che nella Galleria Corsini.

Mi sembra che lei abbia voluto puntare, nelle tante mostre temporanee di questi anni, a una fusione fra scientificità e chiarezza. Parlare a tutti i tipi di pubblico è la direzione dei musei del futuro?

Al pubblico piace essere sfidato, nelle mostre che abbiamo allestito abbiamo cercato di essere limpidi ma anche complessi: la complessità, infatti, può essere straordinariamente chiara. Altra sfida, che si è rivelata anche una grande fortuna, è che le Gallerie Nazionali non rientrano nei circuiti del turismo di massa, ciò che ci ha permesso di mettere alla prova prima noi stessi e poi il nostro pubblico.

Ci sono dei musei cui ha guardato, e guarda, come stimolo e modello?

Ci sono, ma cambiano di volta in volta. Come storica dell’arte, mi sono occupata spesso di storia del museo e di storia del collezionismo. Diciamo che considero delle cornerstone, per esempio, il Philadelphia Museum of Art, un’istituzione straordinaria dal punto di vista storico e della collezione. Fondamentale, naturalmente, il Metropolitan, nel quale ho lavorato, e dove ho imparato anche a non aver timore di fare mostre su quesiti. Non mostre monografiche, ma esposizioni che partono da un problema e lo sviluppano.

Alle Gallerie Nazionali, negli ultimi tempi, abbiamo collaborato molto con il Prado, che dal punto di vista delle ambizioni di ricerca, realizza progetti davvero rilevanti, mantenendo un ottimo equilibrio con circa 3 milioni di visitatori all’anno. Trovo infine molto stimolanti i musei del XIX e XX che, specialmente in Olanda, svolgono un ottimo lavoro di allestimento fra arte e storia.


Lei ha portato l’arte contemporanea a reagire, per così dire, con l’antico: penso ad esempio alla performance di Politi nell’ottobre 2021 a Palazzo Barberini, o alla mostra di Robert Mapplethorpe a Corsini nel marzo 2019.

Queste due mostre, ma penso anche a «Eco e Narciso» in collaborazione con il MaXXI, sono stati strumenti di conoscenza, chiavi di accesso alle collezioni. Nel caso dell’esposizione di Mapplethorpe (che, con i suoi 30mila visitatori, è stata un grande successo per la Corsini) ci siamo serviti delle sue foto come calamite visive, per far compiere al visitatore il gioco del conoscitore. Nel caso di «Eco e Narciso», poi, il dialogo con la collezione del MaXXI è stato indispensabile in fase di ripensamento dell’allestimento di Palazzo Barberini. Sono assolutamente convinta che l’arte contemporanea, con la sua dimensione spaziale, sia utile e fertile per la scoperta e percezione degli spazi. La collezione di un museo possiede anche un proprio valore d’uso, le opere non sono fatte solo per essere guardate, ma anche, come ha fatto Politi nella sua performance, utilizzate.

Che cosa porterà con sé della direzione delle Gallerie Nazionali nelle sue future esperienze lavorative?

In estrema sintesi, il divertimento, inteso nella sua più alta espressione. Un divertimento filosofico, che deriva da un’idea prismatica della direzione museale: in questi anni ci siamo occupati di gestione, di fondi, di progetti di ricerca, di arte e di produzioni contemporanee. Questo è stato possibile grazie a uno staff straordinario, con cui sono cresciuta moltissimo. Quello che porterò con me sarà sicuramente il lasciarsi sempre sorprendere, mantenendo una dimensione di curiosità e di sfida, non priva di ironia.

Leggi anche:
Roma non può avere il Museo, come il Louvre, il Prado o il Met. Il suo grande museo sono i Vaticani

Flaminia Gennari Santori. Foto: Alberto Novelli

Arianna Antoniutti, 27 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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