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Graffito «C. Vidua 1820» davanti alla figura di Sety I con un incensiere. Tempio di Sety I a Qurna, Riva Ovest di Luxor; XIV-XIII secolo a.C.

Foto: Francesco Tiradritti

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Graffito «C. Vidua 1820» davanti alla figura di Sety I con un incensiere. Tempio di Sety I a Qurna, Riva Ovest di Luxor; XIV-XIII secolo a.C.

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Francesco Tiradritti

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Tra i meriti riconosciuti a Napoleone c’è quello di avere aggregato 167 studiosi, noti come i «savants», al corpo di spedizione con il quale il giovane generale corso si recò in Egitto tra il 1798 e il 1801. Ancora dibattute sono le ragioni che lo spinsero a intraprendere un’azione militare così impegnativa. Il tentativo di chiudere la via commerciale tra l’Inghilterra, l’Oriente e le colonie trova una sua ragione dal punto di vista strategico. Non spiega però la particolare predilezione mostrata da Napoleone per l’Egitto. Si è perciò pensato a una sua appartenenza alla Massoneria, sebbene non esista alcun documento ufficiale che lo comprovi. La nomina del fratello Giuseppe a Gran Maestro del Grande Oriente di Francia nel 1804 e l’invito a aderire alla Massoneria rivolto a molti ufficiali dell’esercito sembrerebbero però testimonianze sufficienti a comprovare la predilezione di Napoleone nei confronti dell’associazione iniziatica.

Nel XVIII secolo la Massoneria si era appropriata delle istanze rinascimentali che attribuivano all’antico Egitto una sapienza millenaria e che attribuivano perciò alla civiltà faraonica priorità rispetto alle successive e, di conseguenza, alle credenze religiose da queste elaborate. L’iconografia rivoluzionaria americana e francese, propugnate da personaggi affiliati alla Massoneria, trasse ispirazione a piene mani all’immaginario egizio.

In un’ottica massonica potrebbe anche rientrare la decisione, sancita dal decreto emanato da Napoleone il 29 gennaio 1811, di porre Iside in trono sulla prua dell’imbarcazione che campeggiava al centro dello stemma di Parigi dal XIV secolo. L’immagine era tratta dalla figurazione centrale della «Mensa Isiaca», all’epoca ancora a Parigi dove sarebbe rimasta fino alla stipula del trattato di Fontainebleau nel 1814.

Stampa a colori dello stemma di Parigi eseguita da H. Traversier, tratta dal volume «Armorial National de France: recueil complet des armes des villes et provinces du territoire français réuni pour la première fois, dessiné et gravé par H. Traversier» (1842) di Léon Vaïsse, Challamel, Parigi. Archivio Francesco Tiradritti

Nel 1814 si trovava a Parigi anche il giovane conte Carlo Fabrizio Vidua (1785-1830) che già da qualche anno aveva manifestato una viva propensione per i viaggi. Nato da una nobile famiglia di Casale Monferrato, aveva compiuto studi di giurisprudenza a Torino dove era entrato a fare parte della Società dei Concordi, circolo che riuniva numerosi esponenti della cultura cittadina. Vidua cominciò a viaggiare nel 1809 e lo fece per tutta la vita. Morì nel 1830 a causa di una cancrena derivatagli dalle ustioni procuratesi durante un’imprudente visita a un vulcano (o solfatara) sull’Isola di Celebes (attuale Sulawesi).

Tra il 1819 e il 1820 Vidua si recò in Egitto spingendosi fino in Nubia da dove riportò due iscrizioni, donate in seguito dalla famiglia al Museo Egizio di Torino (Catt. 7141 e 7142). Le altre antichità egizie da lui raccolte entrarono invece a far parte delle collezioni di antichità di Casale Monferrato grazie a un lascito testamentario della cugina la contessa Clara Leardi.

Ritratto di Carlo Vidua

Durante la sua permanenza in Egitto Vidua strinse amicizia con Bernardino Drovetti (1776-1852), piemontese di Barbania che aveva studiato giurisprudenza prima di arruolarsi come soldato nell’esercito francese. Il suo eroismo gli era valso la naturalizzazione francese e la nomina a capo di stato maggiore della divisione piemontese. Congedatosi, aveva rivestito la carica di giudice presso il tribunale di Torino. L’amicizia con Gioacchino Murat (1767-1815) aveva condotto alla sua successiva nomina a vicecommissario per gli affari economici in Egitto dove era giunto all’inizio dell’estate 1803.

Il suo mandato fu caratterizzato dalla lotta per il potere tra ottomani e mamelucchi che si scatenò all’indomani della partenza dell’esercito francese. Drovetti capì subito che il «wali» (capo militare, Ndr) Mohammed Aly (1769-1849) aveva le migliori probabilità di successo, se lo fece amico e, quando il governo ottomano lo nominò Khedivè (viceré) d’Egitto, ne divenne fidato consigliere. Grazie a questo legame Drovetti riuscì a ottenere concessioni di scavo che gli consentirono di accumulare un notevole numero di antichità assai ricercate da facoltosi privati e istituzioni museali occidentali grazie al rinnovato interesse per l’Egitto diffusosi in Europa all’indomani della spedizione napoleonica.

Bernardino Drovetti viene spesso annoverato tra i primi ad avere mostrato un reale interesse per i monumenti egizi. Le sue lettere dimostrano invece una consapevolezza del loro crescente valore finanziario. Oltre a esporli nella sua residenza alessandrina, suscitando l’ammirazione dei viaggiatori che non mancavano di passare a salutarlo, Drovetti cominciò molto presto a farne commercio. L’elevato ammontare di debiti accumulati lo costrinse a vendere una prima collezione di antichità già nel 1806.

Con la restaurazione il governo francese gli revocò il posto. Drovetti decise però di rimanere in Egitto dove, continuando a godere della protezione di Mohammed Aly, ebbe ancora più tempo per dedicarsi alla ricerca delle antichità. In quegli anni entrò in conflitto con Henry Salt (1780-1828), nominato console generale d’Inghilterra nel 1815, anch’egli da subito cosciente del valore monetario dei monumenti egizi.

Nel 1816 Drovetti era riuscito a formare una raccolta di tale consistenza da fargli sperare in un lauto guadagno. La offrì prima al Piemonte, che ritenne la cifra richiesta troppo elevata, e poi alla Francia, che rinunziò dopo avere dimostrato un certo interesse all’acquisto.

Bernardino Drovetti e i suoi collaboratori mentre misurano un frammento di colosso in Alto Egitto: stampa a colori elaborata a partire dal «Voyage dans le Levant en 1817 et 1818» (1819) di Louis de Forbin, Imprimerie royale, Parigi, p. 297. Archivio Francesco Tiradritti

La svolta nelle trattative si ebbe proprio con l’arrivo di Carlo Vidua ad Alessandria, dove non mancò di fare visita a Drovetti che gli fornì un elenco della sua collezione che annoverava ormai oltre 3mila reperti. Vidua lo trasmise al conte Prospero Balbo (1762-1837), allora ministro degli Interni, che riuscì a interessare l’Accademia delle Scienze e alcuni personaggi influenti alla corte dei Savoia. In una lettera del 6 novembre 1820 lo stesso Balbo comunicava a Drovetti l’esito positivo delle trattative.

I moti del 1821 e la conseguente abdicazione di Vittorio Emanuele I (1759-1824) condussero a un’interruzione nelle trattative che furono però riprese e portate a termine da Carlo Felice (1765-1831). L’incarico di stilare l’inventario fu affidato all’accademico Giulio Cordero di San Quintino (1778-1857) che fu inviato a Livorno dove Drovetti aveva già spedito la sua collezione. Grazie alle informazioni raccolte da Cordero di San Quintino, il 24 gennaio 1824, veniva redatto l’atto ufficiale d’acquisto della collezione per il quale lo Stato piemontese corrispondeva 400mila lire, cifra ammontante a circa la metà di quanto annualmente destinato all’istruzione pubblica.

La collezione drovettiana fu trasportata per nave fino a Genova dove i monumenti furono caricati su carri dell’artiglieria. Qualche problema lo pose il trasporto del colosso di Sety II che costrinse a rinforzare un ponte di barche sulla Bormida. Giunti a Torino i monumenti vennero sistemati nell’ala sinistra del palazzo dell’Accademia delle Scienze.

Cordero di San Quintino fu nominato conservatore del nuovo museo e si occupò della sua sistemazione. Non poche furono le frizioni con Jean-François Champollion (1790-1832), giunto a Torino il 7 giugno 1824 per studiare le iscrizioni e i papiri. Il francese aveva scarsa considerazione della preparazione di San Quintino e nella sua corrispondenza lo menziona come «la Bête». In prossimità del Natale 1824, Champollion arrivò persino a pubblicare un opuscolo in cui fingeva che il colosso di Sety II rivolgeva una preghiera al re di Sardegna affinché gli desse degno riparo, visto che si trovava ancora nel cortile ed era perciò esposto alle intemperie del rigido inverno. San Quintino ricambiava la disistima ritenendo, giustamente, che i modi in cui Champollion intendeva sistemare i papiri non erano appropriati. Arrivò persino a impedirgli il libero accesso alle collezioni, garantito a Champollion grazie a un mazzo di chiavi ricevuto direttamente dall’autorità statale. Mentre i battibecchi tra i due andavano avanti, le casse contenenti la collezione Drovetti venivano aperte una dopo l’altra e i monumenti sistemati nella loro sede definitiva.

In una lettera del 1825 Cordero di San Quintino annunciava che le sale del nuovo museo erano in ordine e potevano essere aperte al pubblico. Una breve guida a firma di Champollion, pubblicata nel «Calendario generale pe’ Regii Stati» dello stesso anno, consentiva ai visitatori di avere un’idea delle meraviglie sottoposte alla loro ammirazione. Le presunte origini egizie di Torino ricevevano così vivida concretizzazione nell’apertura di una delle più importanti e prestigiose raccolte di antichità faraoniche al mondo. La storia del Museo Egizio di Torino era appena cominciata…

Statuine funerarie dalla Tomba di Sety I (Valle dei Re 17; XIV-XIII secolo a.C.) acquistate da Carlo Vidua, Museo Civico di Casale Monferrato, catt. 934-939. Immagine elaborata da F. Tiradritti dal catalogo della mostra «Egitto nascosto. Collezioni e collezionisti dai musei piemontesi» (2009) di Silvia Einaudi, Silvana Editoriale, pp. 80-81

Statua colossale di Sety II in quarzite della fine del XIII secolo a.C. dal Tempio di Amon a Karnak, Museo Egizio di Torino (cat. 1383). Foto: Museo Egizio di Torino

Francesco Tiradritti, 19 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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