Stefano Causa
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Impossessarsi di un pezzo piccolo o grande che sia. Un brano musicale, un libro, una scultura o un quadro. Smontarlo e rimontarlo mille volte; entrarci dentro portandolo dalla propria parte. Eventualmente reinventarlo: anche questa è un’operazione critica a tutti gli effetti. Come sapevano tra i tanti Luca Giordano dinanzi a Raffaello, Cézanne con Poussin, Picasso passeggiando nella Pinacoteca Universale, Miles Davis con Gershwin o John Coltrane quando decise di vampirizzare l’innocuo valzerino di «My favorite things».
Però non è cosa comune. E pure lungo i bordi di una cultura accademica come la nostra, così maldisposta a disallinearsi, si sono mossi ingegni non incasellabili con cui, perciò, il nostro rapporto non è mai stato, né avrebbe mai potuto aspirare ad essere pacificato. Prendiamo il caso di un uomo di musica come il medico milanese Enzo Jannacci, scomparso nel 2013. Che ricordi abbiamo, che immagine ci portiamo di lui se non quella di uno che aggrediva le cose della vita sempre dagli angoli della tastiera?
L’album «O vivere o ridere?», che confeziona a quarant’anni, risale al 1976. Il punto interrogativo non è originale. Lo abbiamo aggiunto per mitigare l’oltranza di uno dei titoli da salvare degli anni ’70. Il disco si apre con la cover di una canzone di epoca fascista, «Vivere», di Cesare Andrea Bixio che Tito Schipa avrebbe reso un successo nel film omonimo di Guido Brignone del 1937. Appoggiandosi al basso di Gigi Cappellotto e al drumming funzionale di un jazzista come Tullio De Piscopo, Jannacci entra ed esce dalla canzone, stona e rallenta, ripudia a monte la vocalità classica e rotonda di Schipa. Improvvisa con nonchalance e si permette di cambiare i versi come è consentito fare solo coi pezzi riveriti («perché la vita è bella e la voglio vivere sempre più, diventa l’anacoluto in rima, e la voglio vivere senza tu»). La trasforma al punto che chi provi a riascoltare questa, che sfodera uno dei ritornelli memorabili tra le due guerre, non può sottrarla all’autopsia rigeneratrice di Jannacci. Ma la cover di «Vivere» fa emergere trame sottotraccia e ironie, altrimenti imprendibili. Quello di Jannacci non è solo un omaggio sui generis di uno dei pochissimi cantanti e compositori borderline del dopoguerra; ma, per estensione, un riesame delle idee ricevute sul Fascismo nella fase più drammatica, un anno prima delle leggi razziali.
Ora su questa lettura critica che immagine metti? Per gli specialisti di scultura tardo barocca il genovese Queirolo è tra gli eroi del sacello settecentesco della Cappella Sansevero. Per gli altri, usi a uscire dai palinsesti usuali della storia dell’arte, è il cognome di un illustratore milanese ottantenne, Renato Queirolo. Che per l’occasione, giocando col bianco e nero e pochi colori scelti, immagina un ottovolante in veduta scorciata mentre, a destra, la figurina di un uomo acefalo, con giornale sportivo sotto braccio, prova a riequilibrare e a commentare idealmente la foto. Al posto dei vagoni la ruota panoramica presenta lattine di pomodoro Campbell (la Pop art era stata sdoganata alla Biennale meno di dieci anni prima con riscontro di pubblico e vari sbeffeggiamenti anche autorevoli). Desolante e sgangherata la copertina di Queirolo è la prima lettura critica della musica di Jannacci nel 1976, al centro di uno dei decenni più drammatici della storia recente. O vivere o ridere. Appunto. Meno di vent’anni dopo, nel 1993, un signore di Zocca, Vasco Rossi, che Jannacci ha sentito con una e, spesso, entrambe le orecchie, avrebbe risolto il dissidio a modo suo: «Vivere, come ridere». E sorridere dei guai come non hai fatto mai, e sperare che domani sarà sempre meglio.
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