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Stefano Miliani
Leggi i suoi articoliÈ il 1500: durante la cerimonia del «Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo» Gentile Bellini raffigura sulla destra un uomo pronto a tuffarsi in un canale di Venezia. Ha la pelle nera. Un attore in sfarzosi abiti cinquecenteschi si staglia nel buio e interpreta Ne Vunda, ambasciatore del regno del Kongo dell’Africa centrale in Portogallo e in Vaticano. Una sequenza poetica inquadra una fila di bicchieri di latte in cui qualche goccia di un liquido scuro cambia il biancore della bevanda. Sono frammenti di «We Were Here-La storia sconosciuta degli Africani nel Rinascimento europeo», documentario di Fred Kudjo Kuwornu (Bologna, 1971) in corsa per le nomination agli Oscar® 2026 nella categoria Best Documentary Feature. Le premiazioni saranno al Dolby Theatre di Los Angeles il 15 marzo 2026.
Regista, filmmaker, artista, studioso, Kuwornu è cittadino italiano, ghanese e statunitense, figlio di un cardiochirurgo del Paese africano e di una italiana. Il film era esposto alla 60ma Biennale d’Arte di Venezia del 2024 curata da Adriano Pedrosa. Prodotto da Do The Right Films di New York, in quasi un’ora «We Were Here» esplora la presenza di neri africani in dipinti dalla fine del ‘400 al ‘600, in città come Venezia, Roma, Firenze, Palermo, Parigi, Londra, Siviglia, Granada, Madrid, Lisbona per arrivare in Brasile e a New York.
Con sensibilità e sapienza l’autore intreccia sequenze d’invenzione, interviste a studiose e studiosi e sopralluoghi. Su un tema simile nel novembre 2022 Sky Arte trasmise il documentario «Il Rinascimento nascosto. Presenze africane nell’arte. Il ruolo delle persone africane e afro-discendenti nella società del ’500» di Francesca Priori con Cristian Di Mattia. Kuwornu è stato assistente alla produzione nel film di Spike Lee «Miracolo a Sant’Anna» (2008), ha firmato i documentari «18 Ius Soli» (2011) e «Inside Buffalo» (2010). Lo abbiamo incontrato.
Uno screenshot dal docufilm «We Were Here» di Fred Kudjo Kuwornu
Kuwornu, come nasce l’urgenza di raccontare la presenza di africani nel Rinascimento?
Mi appassionano tutti i tipi di rappresentazione ed essendo figlio di un africano cerco di lavorare su quella dei neri in Europa. L’urgenza nasce da una sensazione: siamo circondati da testimonianze di questa presenza e non mi trovavo rappresentato nelle tantissime produzioni culturali sul Rinascimento. Invece nel ’500 e ’600 troviamo soggetti neri anche in dipinti di artisti famosi.
Com’è scattata la consapevolezza di questa carenza?
Da un interrogativo. Io stesso, di fronte a presenze nere nei quadri, probabilmente non le avevo notate e, se le avevo notate, non mi ero mai chiesto perché erano lì, se, vedendoli ben vestiti o in atteggiamenti più di autorità che di servi, erano tutti schiavi. L’urgenza nasce dall’utilizzare il Rinascimento come una chiave di lettura di un’Europa che all’epoca non era ancora strutturata in gerarchie razziali.
Nel film lei afferma: essere neutrali non è un’opzione. Qual è allora l’opzione?
L’opzione è contrastare quella che non è solo un’amnesia. In questo momento si grida alla dichiarazione di appartenenza europea come se fosse collegata all’etnia quando l’etnia dei Paesi sudeuropei, quindi di spagnoli, portoghesi, italiani, greci, francesi, è già mischiata da secoli. Invece vediamo rinnegare la storia.
E assistiamo a un razzismo crescente.
Lo vediamo ma non è nato all’improvviso. Nella letteratura, nelle vignette, nei modi di rappresentare anche visuali dell’800 e del primo ’900 in Europa vediamo il vero razzismo. Probabilmente si attenua forse per un attimo, finita la Seconda guerra mondiale, perché era il momento della decolonizzazione, ma non puoi cancellare un’idea che gli europei hanno di altre popolazioni e che magari è stata costruita in due secoli, generazione dopo generazione. Faccio un esempio: negli anni ’60 e ’70, i dirigenti nella televisione e nei giornali italiani erano persone nate, cresciute ed educate al razzismo. Quindi inconsciamente, senza cattiveria, veicolavano lo sguardo eurocentrico con stereotipi e pregiudizi attraverso i giornali, le pubblicità: la donna nera sensualizzata per pubblicizzare il caffè era la stessa, magari un po’ più hard, degli anni ’20 e ’30. Nel documentario ho cercato di intercettare quel momento dell’Europa in cui la razza non era una categoria su cui costruire differenze o un’ideologia razzista.
Lei richiama il pittore seicentesco Juan de Pareja in un ritratto di Velázquez al Metropolitan Museum di New York e inquadra l’uomo nero sul punto di tuffarsi nel «Miracolo della Croce» di Gentile Bellini dell’Accademia di Venezia. Perché ritiene significative queste figure?
Riprendo Juan de Pareja perché ho sempre visto quel dipinto, sia perché vivo a New York e ogni tanto andavo al Metropolitan, sia perché è in molte pubblicazioni, ma non ne conoscevo la storia. Né sapevo che quel volto era a sua volta di un pittore. Attraverso Bellini volevo raccontare le persone nere nella Venezia dell’epoca, che tra l’altro lavoravano spesso come gondolieri. Li vediamo anche nel «Miracolo della Croce a Rialto» del Carpaccio alle Gallerie dell’Accademia. Allora i neri probabilmente rappresentavano il 20-30% dei gondolieri: era un lavoro di fatica e per almeno quattro mandati, per circa vent’anni, i presidenti della loro associazione furono neri, nati e cresciuti in città.
In «We Were Here» affronta la vicenda di Alessandro de’ Medici (1510-37), raffigurato dal Pontormo e poi dal Bronzino, e dice: un mistero avvolge la corte dei duchi, si dice che fosse figlio illegittimo di Lorenzo II e di una serva africana. Fu ucciso dal cugino Lorenzo. Perché trova la vicenda così intrigante?
Più che il mistero sentivo l’urgenza di raccontare che nel ’500 poteva esserci stata la possibilità di avere un capo di un Ducato potente. Nel documentario abbiamo il professore universitario, il santo (il siciliano san Benedetto il Moro vissuto dal 1524 ca al 1589, Ndr), il pittore, l’ambasciatore, mancava una autorità politica.
Su Alessandro de’ Medici nero era uscito un libro una decina di anni fa.
Sì, The Black Prince of Florence: The Spectacular Life and Treacherous World of Alessandro de’ Medici della storica inglese Katherine Fletcher, nel 2016, ma già venti-venticinque anni fa storici dell’arte come l’afroamericano John Brackett (intervistato da Kuwornu nel film, Ndr), analizzando documenti storici avevano iniziato a ipotizzare che sua madre fosse una serva africana, Simonetta da Collevecchio. Nel documentario ho utilizzato anche altri elementi per far pensare che potesse essere lei la madre anche per dare risalto alle tante donne nere che lavoravano come domestiche e ai loro figli.
Nel film riprende l’«Adorazione dei Magi» di Dürer degli Uffizi. Che cosa ci dice il fatto che il pittore tedesco dipinga uno dei Magi come un nero? Non dava scandalo?
Ci dice molte cose, anche degli equilibri politici dell’epoca all’interno della cristianità. In Vaticano esiste la Chiesa di Santo Stefano degli Abissini dove venivano i prelati etiopi, che erano accettati tranquillamente nella Santa Sede pur non essendo cattolici. Dal regno del Kongo, che era cristiano, arrivavano ambasciatori e commercianti. Non c’era imbarazzo nel rappresentare una persona nera fra i re Magi come ha fatto Dürer.
Il suo film era alla Biennale di Venezia del 2024. Oggi è ancora più necessario e impattante di quanto non fosse l’anno scorso?
Secondo me un’opera del genere poteva essere impattante cinque-sei anni fa come lo sarà nei prossimi dieci anni. Il documentario vorrebbe far riflettere non solo sul tema dell’africano: può essere su un’altra etnia, sulla donna o su tante altre cose. Abbiamo un materiale prezioso nella storia dell’arte per riformulare veramente quella che era la società dell’epoca e contrastare le classiche frasi «noi siamo europei, la storia europea ha radici cristiane»: «We Were Here» vuole scomporre i pregiudizi sulle nostre origini.
Da sinistra, i personaggi di Alessandro de’ Medici, del nobile João de Sá Panasco e di Ne Vunda ambasciatore del Kongo nel docufilm «We Were Here» di Fred Kudjo Kuwornu
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