Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliPuò accadere che un grande archeologo, autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche, risulti legato in maniera indissolubile a un libro: è il caso di Massimo Pallottino (Roma, 1909-95) con il suo Etruscologia (Hoepli). Ho quel manuale accanto a me mentre scrivo questo ritratto: era il principale testo di esame nei miei anni universitari. La prima edizione è del 1942, la ristampa della settima edizione è del 2016 quando l’autore era scomparso da più di vent’anni: si tratta di un vero classico della disciplina, tradotto in numerose lingue europee.
Quell’opera ha un antecedente diretto nel volume Gli Etruschi stampato nel 1939 nella collana «I popoli del mondo romano» subito dopo la «Mostra augustea della romanità», allestita a Roma tra il 23 settembre del 1937 e il 6 novembre del 1938. L’esposizione era stata curata da Giulio Quirino Giglioli, professore con il quale Pallottino si era laureato nel 1931 con una tesi su Tarquinia a soli 22 anni.
Dopo la laurea venne assunto presso l’amministrazione delle Antichità e Belle Arti, divenne quindi libero docente dal 1937 al 1940 e poi professore ordinario di Archeologia e storia dell’arte greca e romana a Cagliari sino al 1945, quando tornò nell’Ateneo romano. Qui ha tenuto l’insegnamento di Etruscologia e Antichità Italiche sino al 1980, divenendo poi professore emerito.
La sua figura di rifondatore degli studi di Etruscologia appare chiara già dagli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento: nel secolare dibattito sull’origine degli Etruschi, iniziato addirittura con lo storico Erodoto, introdusse il concetto di formazione in luogo di quello di provenienza. In proposito, già nel volume Gli Etruschi scriveva: «Le origini di una nazione […] non possono essere ricondotte a un solo fattore storico, anche se di vasta portata come una migrazione o una conquista», ma a un processo formativo. Non era un’affermazione scontata in quegli anni.
Sviluppò la tematica qualche anno dopo nel volume L’origine degli Etruschi (1947) e la trasferì nel manuale già ricordato. Riprendo un passo dall’edizione su cui ho studiato: «Alla formazione di tale realtà storica hanno senza dubbio concorso, attraverso un lungo processo, diversi elementi etnici, linguistici, politici e culturali». Un concetto, come ha osservato Giovanni Colonna, suo allievo e successore, che costituisce l’aspetto teorico più originale del suo pensiero.
Gli interessi dello studioso verso il mondo etrusco hanno spaziato dall’epigrafia alla storia dell’arte senza dimenticare mai il divenire storico di quel popolo e le sue interrelazioni con le altre genti dell’Italia antica (si ricordi, in proposito, almeno, il libro Storia della prima Italia, 1984) e del Mediterraneo. Intenso è stato il suo impegno nel tentare di raggiungere un pubblico più ampio degli «addetti ai lavori» senza inseguire scorciatoie: in questo ambito si possono ricordare la direzione dell’Enciclopedia Universale dell’Arte e la cura di numerose esposizioni a partire dalla mostra «Kunst und Kultur der Etrusker» che, tra il 1955 e il 1956, toccò diverse città europee per terminare con «Les Étrusques et l’Europe», allestita a Parigi e Berlino fra il 1992 e il 1993.
Tra le campagne di scavo che ha promosso vanno rammentate, in particolare, quelle nel santuario di Pyrgi con scoperte di grande interesse come l’altorilievo in terracotta del tempio A, ispirato a episodi della saga mitologica dei Sette contro Tebe, e le iscrizioni in etrusco e in fenicio su lamina d’oro con il ricordo di Thefarie Velianas, regnante su Caere (Cerveteri).
Infine, una rivelazione che si deve a Mauro Cristofani, un altro dei suoi allievi migliori ed eredi ideali: Pallottino non amava l’etichetta di etruscologo o di archeologo, preferendo autodefinirsi storico del mondo antico nella piena consapevolezza dell’importanza della documentazione archeologica nella ricostruzione storica.
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