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Lidia Panzeri
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La città scaligera festeggia il ritrovamento di uno dei suoi gioielli più preziosi, rimasto chiuso per restauro oltre dieci anni: la sacrestia della Chiesa di Santa Maria in Organo. La «più bella sagrestia che fusse in Italia» la definì Vasari per i suoi affreschi, realizzati da Domenico e Francesco Morone tra il 1505 e il 1508, e per le tarsie lignee del coro, capolavoro assoluto di Fra Giovanni da Verona.
La Chiesa di Santa Maria in Organo è una delle più antiche di Verona, le sue origini risalgono all’epoca longobarda: ne rimangono alcune tracce sulla facciata, poi rifatta in epoca rinascimentale su moduli palladiani. A croce latina e tre navate, la chiesa è un manifesto della pittura manierista veronese anche se alcuni dei suoi dipinti nel tempo hanno trovato diversa collocazione, come la pala dell’Assunta di Andrea Mantegna, montata sull’altare maggiore il 15 agosto del 1497 e ora al Castello Sforzesco di Milano.
Notevole anche l’ampia cripta ad archi sostenuti da colonne con capitelli romanici. Per tornare alla sacrestia, sulle pareti laterali e nelle lunette si snoda la teoria dei monaci benedettini devoti, non ieratici, anzi ognuno con una ben definita fisionomia. Sulla volta a botte due tappeti di croci greche con delicata decorazione a racemi affiancano l’oculo centrale in cui Cristo è reso con lo stesso effetto prospettico della mantovana Camera degli Sposi di Mantegna. Le cause principali del degrado della sacrestia erano le infiltrazioni d’acqua causate dal dissesto del tetto, il primo a essere riparato una decina di anni fa, e la presenza d’incrostazioni saline con conseguenti distacchi e alterazioni di colore sulle superfici dipinte. L’intervento sugli affreschi ha comportato la rimozione delle incrostazioni, il reintegro delle lacune e il recupero del colore paglierino delle pareti. Il restauro ha però coinvolto anche le vetrate e i lampadari, il che ha implicato il coinvolgimento di diverse competenze coordinate dall’architetto Fabrizio Rossini, direttore dei lavori. A sigillo un nuovo impianto d’illuminazione.
L’intervento, impegnativo anche dal punto di vista economico, è stato finanziato dal Ministero, che ha messo a disposizione 500mila euro, e da Fondazione della Comunità Veronese, Fondazione Cariverona, Banco Bpm e Fondazione Giorgio Zanotto. Alla presentazione dei restauri ha partecipato Antonio Paolucci che tra i suoi primi incarichi annovera anche quello di soprintendente a Verona. Paolucci ha ricordato quanto la posizione geografica di Verona l’abbia resa partecipe del sistema religioso e politico italiano ma anche tramite con il mondo tedesco (in un affresco Cristo è raffigurato a cavallo di una mula nera, elemento di tradizione nordica). Paolucci ha poi focalizzato la sua attenzione sulle tarsie del coro e della sacrestia, capolavoro di Fra Giovanni da Verona. Eseguite con una pluralità di essenze che variano dal noce all’acacia alla quercia, compresa quella nera cioè fossile. Quanto all’iconografia, accanto ai paesaggi reali e alle rovine si annoverano nature morte con il tema della vanitas, allusioni alla Eucarestia e animali simbolici come la civetta, simbolo di sapienza, o lo scoiattolo che fa riserva di cibo, metafora della sobrietà. Nel 1511-12 Fra Giovanni fu chiamato a Roma da papa Giulio II per realizzare, nella stanza della Segnatura di Raffaello, la sua biblioteca purtroppo perduta. Tanto più importanti quindi queste tarsie sopravvissute che affascinarono già Giorgione. La sacrestia è ora visitabile grazie ai volontari della Verona Minor Hierusalem che garantiscono l’accesso a questa e ad altre chiese un po’ periferiche, tra cui i gioielli romanici dei Santi Siro e Libera e di Santo Stefano.
Per prenotazioni www.veronaminorhierusalem.it.
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