Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliIn tempi di guerra l’arte può sembrare un lusso, un’assurda disconnessione dalla realtà. Eppure il colonialismo da sempre utilizza la cancellazione sistematica delle culture indigene come strumento per far prevalere la propria narrazione. E allora l’arte diventa un’affermazione di vita che emerge dal grigio delle macerie.
Dopo quasi quattro mesi di chiusura, l’11 febbraio a Birzeit, in Cisgiordania, ha riaperto al pubblico The Palestinian Museum, un’organizzazione non governativa nata nel 1997 per sostenere e conservare la narrazione storica, sociale e culturale del popolo palestinese. Siamo a pochi chilometri da Ramallah. Qui, la popolazione vive tra continue incursioni israeliane la guerra di ritorsione su Gaza per il disumano attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Ma, a differenza di Gaza, dove non c’è luogo in cui nascondersi né nascondere ciò che è prezioso, qui l’arte può diventare un rifugio e una forma di resistenza.
Il museo ha riaperto con quella che ha definito una dimostrazione artistica, composta da tre mostre. «This is Not an Exhibition» utilizza la sala espositiva principale del museo per riunire più di 280 opere di oltre 100 artisti di Gaza prese in prestito da una cinquantina di collezioni private, università e istituzioni della Cisgiordania. «The Disappeared», ospitata nella Glass Gallery del museo, è una personale di Tayseer Barakat, artista di Gaza residente a Ramallah che dal 2009 racconta la guerra attraverso il suo lavoro. Infine, «Women of Gaza», è un archivio del patrimonio popolare palestinese, fatto di oggetti legati alla dimensione femminile e domestica, provenienti da diverse regioni di Gaza. Per la mostra principale, il museo ha invitato a curare la selezione di artisti Eltiqa e Shababek, due gruppi artistici di Gaza, cui la guerra ha tolto i propri spazi e la possibilità di far sentire la propria voce.
The Palestinian Museum in questo modo vuole essere non soltanto uno spazio espositivo ma una piattaforma attraverso la quale continuare a dialogare sul ruolo dell’arte e della cultura in tempo di guerra. Alle pareti, disposte in modo volutamente casuale, le opere di artisti che da anni cercano di trovare i mezzi espressivi per rappresentare e conservare la propria identità, in un luogo in cui quell’identità è confinata dietro muri e check point. Colori, dimensioni e materiali delle opere si intrecciano e confondono, come le vite degli sfollati, di chi fugge la guerra che, brutale livella, non fa distinzioni tra giovani e vecchi, uomini e donne, come lo spazio espositivo non fa distinzioni tra gli artisti.
L’uso di una luce diffusa, senza illuminazione specifica per le singole opere, sottolinea quell’equalizzazione attuata dalla guerra e il carattere corale dell’installazione. Inoltre, come spiega l’organizzazione nel materiale informativo che accompagna la mostra, questa illuminazione costringerà il pubblico ad avvicinarsi alle opere d’arte come il museo chiede al mondo di immergersi nella sconvolgente verità di Gaza. Al centro della sala, un cumulo di macerie che i quadri tutt’intorno guardano come testimoni di una distruzione quotidiana in queste terre.
Questa non è una mostra, recita il titolo. Non una mostra, ma un atto di resistenza. Non una mostra perché, spiega l’organizzazione del museo, fare una vera e propria mostra non è possibile in questo momento: la situazione di emergenza che questi territori vivono da più di quattro mesi non consente di seguire le procedure tipiche di musei e gallerie. Non si può organizzare e installare una mostra quando le comunicazioni con gli artisti di Gaza sono interrotte, quando molti degli artisti stessi hanno perso i loro studi, le loro opere, se non la loro stessa vita. Per questo il museo ha deciso di mettere in vendita tutte le opere in mostra di proprietà degli artisti, garantendo il 100% del ricavato agli stessi. Non una mostra, infine, perché l’idea di questo evento non è quella di mostrare opere d’arte delle quali il pubblico possa farne foto, bensì quella di rivendicare l’esistenza dei palestinesi, della loro cultura e della loro capacità creativa.
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