Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliCostrette a ripiegare sulle piattaforme online, le fiere d’arte contemporanea si dotano di contributi speciali. Cioè di commenti, interviste, approfondimenti, descrizioni di opere a tasso variabile di didascalismo. Lezioncine, spesso, che avrebbero il ruolo di non ridurre tutto a un’alienante sfilata di viewing room. Vediamo i galleristi, gli artisti, i curatori che sanciscono una volta per tutte ciò che ormai è palese da oltre un secolo, cioè che nell’arte contemporanea la forma «sembra ma non è». Ma c’è di più (e di peggio): l’anatema sul «formalismo» proclamato un’ottantina di anni fa dai sostenitori dell’art engagé contro l’art pour l’art ha resistito silenziosamente al trascorrere del tempo e ha avuto effetto ora che anche le nobili «forme» del Modernismo e delle sue propaggini sono ridotte a meri veicoli per la smania contenutistica dei nostri tempi.
Questo perché il contenuto, se è elementare o anche solo modaiolo (come certe espressioni che oggi ci affliggono, tipo «prendersi cura», «resilienza», «empatia», «contesto») è infinitamente più gratificante dell’enigmaticità della forma. E quando la «forma» è in esilio (spesso in compagnia della poesia, se pensiamo che la mutabilità e l’inafferrabilità dell’apparire era la dolce ossessione di quel celebre esiliato che si chiamava Ovidio), trionfano la parola e i parolieri. Il paradosso è che la chiacchiera dilaga online, in sedi deputate alla presentazione delle immagini.
Tutto questo offre molte occasioni di lavoro a giovani critici ingaggiati sulle piattaforme fieristiche. Con una conseguenza, ossia la riduzione della critica prima in curatela e ora in commento. Dopo avere fagocitato le gallerie, le fiere si sono fatte un sol boccone della scrittura e della riflessione sull’arte; forse è eccessivo affermare che il critico militante da «sostenitore» si è tramutato in fecondo imbonitore, ma i margini si stanno facendo molto stretti.
György Korim, l’archivista un po’ folle del romanzo «Guerra e guerra» di László Krasznahorkai, sceglie di condividere un misterioso manoscritto proprio attraverso la rete perché secondo lui «è il primo strumento nella storia umana che contiene in sé la possibilità pratica dell’eternità». Se fosse così, vorrebbe dire che anche le parole pronunciate e scritte sulle piattaforme fieristiche sarebbero destinate a raggiungere i secoli a venire.
Rottami alla deriva di una delirante antologia, saranno materia di studio per gli storici dell’arte del 3400 o giù di lì? Così a occhio non ci pare una bella prospettiva («tutto qui?» direbbero i nostri pronipoti frustrati dalla vacuità di ciò che leggeranno) neanche per le migliori opere d’arte. Ma poi, perché «dire» tutto? Perché privare l’osservatore di quell’eterna fase puberale che eccita un meraviglioso, immaturo erotismo percettivo basato su un’immaginazione non castrata dal catechismo di una «corretta» educazione sessuale pardon artistica?
Arriviamo a dire: perché non lasciarci credere che XY sia un genio quando, nel tentativo di dimostrarlo a parole, si rivela il contrario? E poi: perché svelare la soluzione rovinando la lettura di un «testo» dalla misteriosa conformazione, dalla complessa iconografia? Sondare l’identità dei personaggi della «Flagellazione di Cristo» di Piero della Francesca, del putto che armeggia con un bulino nella «Melancolia» di Dürer, o il significato del cane che affoga su una parete delle pitture nere di Goya è (è stato) un dotto e raffinato esercizio, affascinante proprio perché in realtà l’enigma di quelle opere resta insondabile.
O perché, appena se ne scalfisce la superficie, si percepisce l’abisso e la profondità su cui si affacciano quelle figure. E allora teniamoci stretta un’assurda consolazione: di gente come Piero della Francesca, Dürer e Goya, di angeli pensosi e di potenti allegorie da sfregiare con il grimaldello della banalità di un qualche pedagogico commento, il presente è fortunatamente privo.
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