Enrico Tantucci
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Venezia è una città tenuta su con gli «spilli», ovvero i tiranti di metallo inseriti da secoli all’interno delle murature sottilissime delle sue abitazioni, così fatte per sollecitare con il proprio carico il meno possibile gli infidi suoli della palude. I tiranti garantiscono l’equilibrio statico, ma progressivamente si stanno ossidando, disfacendo, sotto l’azione dell’umidità di risalita, dello shock termico provocato dal riscaldamento interno rispetto alle temperature esterne, delle abnormi concentrazioni di sale, fino a 80 chilogrammi per metro cubo, che aggrediscono le sue strutture.
Mario Piana queste cose le sa bene, probabilmente meglio di chiunque altro, le studia da anni e sul futuro della città storica, della sua integrità fisica oltre che sociale, non è ottimista, senza darla, però, per persa. Ricette, possibili soluzioni, per lui ci sono ancora. Settantadue anni, architetto con un’ampia esperienza nel campo del restauro nella Soprintendenza veneziana ai Beni architettonici e ambientali, già docente di Restauro architettonico all’Università Iuav di Venezia e poi direttore della Scuola di specializzazione in Beni architettonici e del Paesaggio dell’ateneo, dal 2016 è anche proto della Basilica di San Marco, occupandosi così della sua salvaguardia e dei restauri continui a cui deve essere sottoposta. Tante le esperienze e conoscenze che ha appena travasato in un nuovo volume, Costruire a Venezia (Marsilio), che è in pratica una «summa» delle tecniche costruttive, dell’uso dei materiali e della sapienza edificatoria tramandata nei secoli, che oggi è a rischio di definitiva sparizione.
Perché il periodo compreso tra il Quattro e il Cinquecento, uno dei momenti di maggior mutamento in campo edilizio, è un momento storico fondamentale per Venezia e il suo patrimonio edilizio?
Perché è in questo momento che si afferma anche a Venezia il linguaggio del Rinascimento e del Classicismo architettonico con la pietra d’Istria che si impone come materiale lapideo principale della produzione edilizia rispetto al legno, l’esatto opposto di quanto praticato fino ad allora in laguna, con la ricerca della massima leggerezza, degli assestamenti tra l’una e l’altra muratura, dal suo essere estremamente sottile. Questo cambiamento nel lungo periodo non può non creare problemi statici e per questo furono adottati tiranti murari per garantire l’equilibrio statico degli edifici. In fondo non è il legno o la pietra il materiale costruttivo più importante per Venezia, ma il metallo.
Ma adesso anche questo sembra non bastare più. Qual è il momento storico in cui la statica degli edifici veneziani ha cominciato a entrare in crisi?
All’inizio del Novecento, quando anche nelle abitazioni veneziane viene introdotto il riscaldamento. La forte escursione termica delle temperature tra l’interno e l’esterno determina progressivamente l’usura e il disfacimento dei tiranti di ferro inseriti nelle murature delle case e i conseguenti dissesti statici che iniziamo a vedere in tanti edifici con lo «spanciamento» verso l’esterno che inizia dai piani inferiori. Sostituire i tiranti è un primo passo, ma non è sufficiente, perché a questo si aggiunge la risalita capillare dell’umidità dell’acqua lungo le murature degli edifici veneziani, con l’evaporazione che produce quantità di cloruro di sodio impressionanti nelle murature. Così i mattoni, le pietre, le malte e gli intonaci si vanno disgregando con danni che raggiungono quote pari e spesso superiori al primo solaio degli edifici. Nel XX secolo scompare anche in laguna un’intera cultura edificatoria, quando s’impone il sistema fondato sul metallo e il calcestruzzo armato. Adesso si aggiunge il problema dell’innalzamento dei mari che esaspera quello dell’umidità sulle murature, anche se per il momento il Mose ci garantisce almeno dalle acque alte maggiori.
Come si può contrastare l’umidità di risalita nelle case veneziane?
Con interventi che consistono nella formazione di barriere orizzontali capaci di attraversare le murature e intercettare l’umidità. Ma sono molto costosi, in una città da cui ormai molti veneziani preferiscono trasferirsi. Eppure ci sarebbero modalità più economiche per intervenire sui problemi statici e di umidità delle case. Mi viene da dire che non si utilizzano forse proprio per questo motivo.
A che cosa di riferisce?
All’intervento su mio progetto, ormai una quindicina di anni fa, su una casa a schiera in calle delle Beccarie per ricavare quattro appartamenti, un progetto che aveva finanziato Venice in Peril Fund, il Comitato britannico di salvaguardia per Venezia. I problemi statici e il degrado murario provocato dall’umidità di risalita furono affrontati ricostruendo la storia di quell’edificio, anche a livello archivistico, per capire le cause precise del degrado, prima di intervenire. In questo modo abbiamo poi adottato soluzioni che garantiscono ancora oggi l’integrità dell’edificio a costi rivelatisi molto inferiori a quelli normalmente utilizzati per un intervento di questo tipo. Ma poi, la sperimentazione, che aveva coinvolto anche il Comune di Venezia, non è più andata avanti.
Lei, anche nel suo libro, pone in evidenza un altro problema gravissimo per quanto riguarda il futuro della città. Venezia, oltre ai suoi residenti, sta perdendo anche la manodopera specializzata in grado di intervenire sul mantenimento del suo patrimonio edilizio.
È così. I carpentieri, i fabbri, i terrazzieri in grado di restaurare o rifare gli ordinari pavimenti alla veneziana, in calce e non in cemento, stanno scomparendo. L’attuale manodopera nel settore edilizio arriva soprattutto dall’Est europeo e deve formarsi, per così dire, sul campo, perché mancano le figure professionali in grado di trasmettere la conoscenza delle modalità di intervento tradizionali su un tessuto edilizio delicatissimo come quello veneziano. Questo, soprattutto in prospettiva, è un grande problema.
Il Mose, almeno per un congruo numero di anni, sembra avere messo Venezia al riparo dalle grandi acque alte provocate anche dal rialzo dei mari legato ai cambiamenti climatici. Si lavora anche alla almeno parziale impermeabilizzazione di piazza San Marco, uno dei punti più bassi della città. Ma intanto la Basilica di San Marco, di cui lei è il proto, ha dovuto in buona parte mettersi al sicuro dagli allagamenti grazie al sistema di barriere di cristallo che ormai la circondano. Insomma ha dovuto provvedere per conto suo. È sufficiente?
No, sarà necessario installarle anche nelle parte retrostante della Basilica, quella che si affaccia sul rio della Canonica, per evitare che l’acqua possa entrare da quella parte. E lo faremo a spese nostre. Siamo riusciti a ottenere finanziamenti significativi dai Ministeri della Cultura e delle Infrastrutture per interventi sui mosaici, sulle parti lapidee, per il restauro della copertura in piombo delle cupole. Ma San Marco necessita di una manutenzione straordinaria costante e la Procuratoria per questo non dispone di un proprio patrimonio. Può far conto solo sugli introiti dei biglietti d’ingresso alla sua parte museale e al Campanile. Che però da soli non possono bastare. Per questo sono fondamentali i finanziamenti pubblici e anche privati, a cominciare dai Comitati internazionali per la salvaguardia di Venezia.
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