Luca Beatrice
Leggi i suoi articoliSe si eccettua Giulia Andreani, classe 1985 di stanza a Parigi che dipinge come Gian Marco Montesano (la memoria è corta, l’informazione inesistente), i pochi artisti italiani che Adriano Pedrosa ha invitato alla 60ma edizione della Biennale di Venezia (20 aprile-24 novembre) sono tutti morti. Accomunati sotto il termine diaspora, decisamente forte per indicare chi ha scelto per ragioni diverse di andare a vivere all’estero, ha messo insieme, tra gli altri, Filippo de Pisis e Gianni Bertini, entrambi attratti dalla Ville Lumière, lo scultore sardo Costantino Nivola, che ebbe un certo successo a New York, e l’architetto Lina Bo Bardi naturalizzata brasiliana.
Affascinante il repêchage a incuriosire chi dell’arte italiana conosce soprattutto gli epifenomeni e i grandi nomi, ma possibile che il direttore designato dal presidente uscente Roberto Cicutto non abbia potuto o voluto organizzare qualche studio visit in giro per la penisola? Possibile che di ciò che succede da noi (che pure lo paghiamo) non sappia nulla e non voglia sapere nulla? Credete forse che un atteggiamento del genere sia possibile in altre manifestazioni, che in Turchia non suggeriscano di inserire un certo numero di artisti locali per la qualificatissima Biennale di Istanbul, e non si faccia lo stesso a Berlino o Lione? Italia terra di conquista culturale, altro che battibeccare sull’egemonia destra-sinistra, con il placet delle istituzioni che non alzano un dito di fronte all’atteggiamento sprezzante dei curatori stranieri.
Pedrosa si sarà fatta la sua Biennale queer con tutte le minoranze etniche e sessuali del caso, avrà risarcito chi nel sistema dell’arte è stato più assente che marginale, giocando a portare sulla ribalta più importante del mondo chi non c’è mai stato. Magari sarà pure divertente questo folclore, ma la Biennale di Venezia è tutt’altra cosa. Non resta che attendere Pietrangelo Buttafuoco per un cambio di passo.
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