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Una veduta dell’installazione «Rift» di Eva Nielsen al Musée d’Art Moderne di Parigi

© Hafid Lhachmi-Adagp Paris, 2025

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Una veduta dell’installazione «Rift» di Eva Nielsen al Musée d’Art Moderne di Parigi

© Hafid Lhachmi-Adagp Paris, 2025

Prix Marcel Duchamp 2025 • Eva Nielsen e la natura in continua erosione

La prima installazione che si incontra entrando nella mostra dedicata ai finalisti del riconoscimento francese al Musée d’Art Moderne è firmata dall’artista parigina e racchiude l’idea che dal «rift» possa nascere anche qualcosa di nuovo

Il 23 ottobre, alla vigilia della tanto attesa Art Basel Paris, si conoscerà il nome del vincitore o della vincitrice della 25ma edizione del Prix Marcel Duchamp. Istituito nel 2000 dall’Adiaf-Associazione per la diffusione internazionale dell’arte francese, il premio, di 35mila euro, è nato con l’intento di sostenere e rendere visibile la vitalità della scena artistica francese. Da allora, più di cento artisti, francesi o residenti in Francia, hanno beneficiato del sostegno e della visibilità apportati dal prestigioso premio che porta il nome dell’inventore dell’arte contemporanea.

La selezione 2025 mette in risalto la sperimentazione dei materiali e dei linguaggi artistici, riflettendo al contempo la diversità culturale e geografica della scena d’oltralpe e la costante attenzione alla parità di genere.

I quattro finalisti, Eva Nielsen, Bianca Bondi, Xie Lei e Lionel Sabatté, si misurano quest’anno con i nuovi spazi del Musée d’Art Moderne, che fino al 2029 accoglierà il premio durante la ristrutturazione del Centre Pompidou.

Come a voler sottolineare una discontinuità rispetto alle edizioni passate, i curatori Jean-Pierre Criqui e Julia Garimorth aprono il percorso espositivo con una sala comune, dove un’opera per ciascun artista anticipa le rispettive poetiche e ne rivela il filo condiviso. «Non si tratta di quattro progetti autonomi, presentati in successione, ma di un dialogo organico e coerente tra universi diversi. Come se la casualità, principio tanto caro a Marcel Duchamp, avesse guidato l’incontro», osserva Julia Garimorth, curatrice e responsabile delle collezioni d’arte contemporanea del museo. Tutti i finalisti condividono infatti una stessa attitudine: la predilezione per pratiche ibride, capaci di intrecciare linguaggi e materiali differenti, e la costruzione di esperienze immersive in cui lo spettatore è chiamato a diventare parte attiva dell’opera. In modi diversi, ciascun progetto fa riaffiorare, rivela, elementi nascosti o dimenticati, siano essi tracce del paesaggio, frammenti di memoria o segni del tempo.

Eva Nielssen. Courtesy Eva Nielssen e la galleria Peter Kilchmann

Eva Nielsen

«Rift» è la prima installazione che si incontra entrando nella mostra dedicata ai finalisti del Prix Marcel Duchamp. Due grandi tele dominano lo spazio, mentre piccole opere sospese a strutture metalliche si presentano come frammenti di memoria, «registrazioni» di un paesaggio che muta.

Nata nel 1983, Eva Nielsen si è diplomata all’École nationale supérieure des beaux-arts di Parigi, la città dove ancora vive e lavora. La pratica ibrida che ha sviluppato nel tempo e che combina pittura, fotografia e serigrafia mediante la sovrapposizione delle immagini, traduce visivamente la sua ricerca sulle stratificazioni geologiche e temporali del paesaggio. Difficile individuare le componenti delle sue opere che appaiono come spazi enigmatici, sospesi tra un passato da ritrovare e un futuro da decifrare.

Questo progetto, dedicato al fenomeno delle maree, nasce dopo un viaggio nel parco naturale dell’Albufera, in Spagna, e un lungo soggiorno in Camargue, una tra le più belle regioni naturali di Francia, che rischia di essere sommersa per un quarto del suo territorio a causa dell’innalzamento del livello del mare.

Partiamo dalla Camargue. Che cosa ti ha colpito in questo territorio minacciato dal cambiamento climatico?
La Camargue è un luogo sospeso, quasi irreale. È un luogo che mi ha colpito per la sua bellezza ma anche per la sua fragilità, come anche il parco dell’Albufera. Sono luoghi che parlano di trasformazione. Mi sono concentrata sulle marree: l’acqua che avanza, i colori che mutano con la luce, i sedimenti che si depositano… Volevo tradurre questa metamorfosi nella mia pratica, come se il paesaggio stesso mi chiedesse di essere «rivelato», proprio come in una camera oscura. Ho dunque deciso di immergere i tessuti con le mie fotografie stampate nell’acqua: li ho lasciati galleggiare, li ho fotografati mentre l’acqua li attraversava. Quando li ho recuperati, erano coperti di sale e sedimenti, come se il paesaggio avesse impresso la propria immagine sull’opera.

Hai studiato la pittura, praticato molto la fotografia e poi l’incontro decisivo con la serigrafia, una tecnica particolarmente adatta alla tua ricerca artistica che cerca di svelare gli strati nascosti della materia. Come ci sei arrivata?
All’inizio volevo essere tutto fuorché una pittrice! Scattavo fotografie delle periferie parigine, dei cantieri e degli edifici abbandonati che vedevo dal treno. Mi interessava la tensione tra presenza e assenza, tra visibile e invisibile. Poi, durante gli studi, ho scoperto la serigrafia: la combinazione perfetta delle due pratiche che lascia molte possibilità di sperimentazione. 

Nei tuoi lavori, elementi architettonici in primo piano dialogano con paesaggi naturali colorati sullo sfondo. Possiamo dire che questa combinazione definisce il tuo linguaggio visivo. Come vedi il rapporto tra costruzione e natura: come contrasto o equilibrio? 
È un dialogo. L’architettura rappresenta la costruzione, il controllo; la natura, al contrario, l’imprevisto, la dissoluzione. Nei miei lavori le due realtà si sovrappongono senza fondersi, come se cercassero di trovare un punto di equilibrio. È anche un modo per parlare del nostro rapporto con il territorio: fragile, instabile, ma ancora aperto alla possibilità di rigenerarsi.

Come hai pensato l’allestimento al Musée d’Art Moderne?
Ho voluto che il pubblico entrasse dentro l’opera e visto che alla base del lavoro ci sono delle fotografie, ho immaginato lo spazio come una camera oscura dove le immagini appaiono man mano che si entra. È una sorta di paesaggio scomposto, dove ogni frammento corrisponde a una traccia di memoria, a un tempo differente. Le strutture metalliche su cui le opere sono sospese ricordano impalcature o resti di costruzioni, ma in realtà sono come supporti geologici: trattengono le immagini, le fanno emergere e affondare.

Il termine «rift», preso in prestito dalla geologia, indica la frattura che precede la nascita di una nuova crosta terrestre. È una metafora della tua visione del mondo?
Forse sì. Viviamo un’epoca di fratture: ecologiche, sociali, interiori. Ma dal «rift» può nascere anche qualcosa di nuovo. Mi interessa proprio questo momento di passaggio, quando tutto sembra sul punto di distruggersi, ma una nuova forma comincia ad apparire.

Una veduta dell’installazione «Rift» di Eva Nielsen al Musée d’Art Moderne di Parigi. © Hafid Lhachmi-Adagp Paris, 2025

Una veduta dell’installazione «Rift» di Eva Nielsen al Musée d’Art Moderne di Parigi. © Hafid Lhachmi-Adagp Paris, 2025

Bianca Cerrina Feroni, 20 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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