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«Sansone distrugge il tempio» conservato alla Galleria Pallavicini di Roma

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«Sansone distrugge il tempio» conservato alla Galleria Pallavicini di Roma

Sansone stragista ingenuo e inconsapevole

Claudio Strinati ripercorre le peripezie dell’autore che realizzò il «Sansone» attualmente conservato alla Galleria Pallavicini di Roma

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Claudio Strinati

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Alta quasi cinque metri e larga tre e mezzo, la tela raffigurante «Sansone che fa crollare il Tempio» è una gemma misteriosa della Galleria Pallavicini in Roma, uno dei più grandi quadri del Seicento italiano. La storia biblica, nel Libro dei Giudici, è quella del «muoia Sansone insieme con i Filistei» e si svolge, con largo margine di probabilità, a Gaza. Sansone nella Bibbia è descritto come uno stragista nel senso proprio della parola. Uno stragista di certo guidato dal Signore, possente, implacabile, ingenuo e come inconsapevole. La sua nascita è stata governata dall’Angelo del Signore, consacrata dal sacrificio del capretto. La sua vita è attraversata da una serie interminabile di avventure e combattimenti con i Filistei che occupano la terra di Palestina. Innamoratosi di Dalila, rivela a lei il segreto della sua forza: fu l’Angelo del Signore a prescrivere che non si radesse mai i capelli. Così, catturatolo, i Filistei lo accecano, gli tagliano le sette trecce del capo e ne fanno uno zimbello. Ma durante le feste indette in onore del loro dio Dagon (che sarebbe Belzebù il demone secondo una possibile, ancorché incerta, lettura del testo), Sansone chiede al fanciullo che lo conduce per mano di potersi appoggiare alle colonne. Nell’immane dimora adibita a Tempio «vi erano tutti i capi dei Filistei e sul terrazzo circa tremila persone». Sansone implora il Signore che gli dia tutta la forza necessaria per potersi vendicare. Il Tempio crolla e «furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti avesse uccisi in vita». E tutto questo a Gaza, ma Sansone non per questo riuscì a liberare (dal suo punto di vista, beninteso) la zona dai Filistei. Un destino oscuro, insomma, sembra gravare su quelle terre martoriate e la Bibbia ce lo attesta. 

Il quadro Pallavicini è bello e strano, come se riflettesse lo sconcerto di ciò che rappresenta. Sembra che fosse stato commissionato a Domenico Zampieri detto il Domenichino dal cardinale Scipione Borghese. Il 15 settembre 1616 Domenichino riceve 15 scudi, ma già dal maggio di quell’anno il Borghese aveva venduto il magnifico suo palazzo romano (oggi appunto Pallavicini) a Giovanni Angelo Altemps. L’incarico del quadro passa probabilmente all’eccellente ma sfortunato allievo dello Zampieri, Alessandro Fortuna, e questi coinvolge il formidabile e giovanissimo Antonio Carracci che sta lavorando ai mirabili dipinti murali di soggetto biblico al Quirinale. Antonio a sua volta estende l’incarico al senese esordiente Raffaello Vanni attivo con un altro collega senese, Annibale Tegliacci, che, pur bravo, avrà poi scarsa fama presso i posteri. Domenichino forse aveva appena cominciato soltanto la figura del suonatore della tromba ricurva, uno strumento che compare nei suoi pressoché coevi affreschi della Cappella Bandini a San Silvestro al Quirinale. Accanto al suonatore, che c’entra ben poco col soggetto generale rappresentato, c’è la statua quantomai viva di un dio pagano che probabilmente è proprio Belzebù, bellissimo, atarassico giovinetto. Intorno, all’opposto, immagini che sono apoteosi di disperazione e desolazione, nell’accentuato gesto declamatorio e nell’immagine insistita a dismisura del grido, secondo l’estetica del male e del brutto esprimibili solo nell’ottica del sublime o per dirla con Giovanni Battista Agucchi, dell’Idea della Bellezza non confutabile sul piano artistico pur restando estranea al piano della realtà della Storia e della Fede che la Pittura rappresenta o ambisce a rappresentare. L’esorcismo dell’Arte non placa la tragedia che sembra continuare a incombere fatale su Gaza.

Claudio Strinati, 13 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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