Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliDal 18 gennaio al 26 febbraio, presso Aksioma a Lubiana, Carola Bonfili ha presentato il progetto «Second Order Reality», a cura di Ilaria Gianni e Daniela Cotimbo, sostenuto da Fondazione smART-polo per l’arte e realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council.
«Second Order Reality» è un’opera che si sviluppa tra la dimensione fisica e quella digitale. Tramite un video in Cgi (Computer Generated Imagery, Ndr), un ambiente immersivo in realtà virtuale e una serie di sculture, l’opera vuole porre l’attenzione su quegli elementi dell’infanzia che, crescendo, ogni individuo tende a mettere in secondo piano: la capacità di entrare e uscire da diverse soggettività, il «pensiero magico» e l’interesse per gli spazi liminali, aspetti che Bonfili rintraccia nelle esperienze di navigazione dei mondi in realtà virtuale. In vista delle sue prossime presentazioni, previste a giugno presso il MaXXI L’Aquila, al festival Hypermaremma e sulla piattaforma digitale del Centre d’Art Contemporain Genève, abbiamo rivolto alcune domande all’artista.
«Second Order Reality» ha una forte componente narrativa, che lei ha sviluppato impiegando tecnologie digitali avanzate. In che modo nasce il progetto?
Il progetto è stato ispirato da una serie di testi, tra cui La tentazione di sant’Antonio di Gustave Flaubert. Il libro inizia con la descrizione di un ambiente spoglio, in particolare l’interno di una capanna, attrezzata solo di pochi strumenti utili a un’immediata sopravvivenza. Questi oggetti, che per il protagonista, provato da una difficile condizione, hanno una funzione fondamentale, sono descritti in modo sommario ma vengono caricati di un peso simbolico. Mi hanno fatto pensare ai «props» usati nei videogiochi, oggetti semplici con funzioni specifiche. Il libro continua con un’alternanza tra stati «reali» e allucinatori, e da questo aspetto è nato l’interesse per una possibile trasposizione digitale, che già di per sé si potrebbe definire come uno stato allucinatorio. Oltre a questo, ero interessata ad altri slittamenti percettivi, minori, laterali, con cui tutti abbiamo familiarità, nei nostri momenti privati, di sospensione. I momenti in cui non siamo completamente presenti a noi stessi, e nonostante ci sia una forte consapevolezza del nostro corpo, siamo soggetti a delle leggere disfunzioni, come fossero dei piccoli bug. Forse è anche un altro modo per farsi delle domande su fatti apparentemente semplici, che diamo per assodati.
Può accennarci la narrazione che ha costruito?
È la storia di una scimmietta, M’ling, che un giorno si accorge che alcune parti del suo corpo si stanno trasformando in pietra e inizia un piccolo viaggio per cercare delle risposte.
Quale struttura ha dato alla storia?
Cercavo una storia che rispettasse lo schema dei racconti di magia. Le storie, inquadrate nella loro struttura classica, hanno sempre avuto una funzione specifica. Nei bambini, per esempio, sono utili per dare chiarezza alla loro intensa produzione fantastica. Inoltre, danno un ordine, un inizio e una fine a una concatenazione di pensieri inserendoli all’interno di una struttura narrativa lineare dove vengono affrontati dei conflitti, più o meno grandi.
Come mai ha deciso di declinare una parte del progetto in forma di videogioco?
Il videogioco sembra essere al momento lo strumento che più si avvicina alla forma di narrazione classica. Il digitale è un mezzo utile per costruire delle realtà complementari che possono essere comprese intuitivamente senza troppe mediazioni.
Il video in Cgi e l’esperienza in realtà virtuale sono accompagnate da una serie di sculture. Che ruolo hanno queste declinazioni «fisiche» all’interno del progetto?
Credo che a volte mostrare il funzionamento di un sistema sia interessante tanto quanto la sua componente estetica. Per esempio, una delle sculture, «The Multicrane», è una riproduzione analogica del meccanismo su cui si basavano le prime animazioni Disney, una serie di tavole dipinte sovrapposte al fine di creare un’illusione di profondità. Comprendere il funzionamento di un’illusione ottica è simile all’accettare che tutta la materia che ci circonda è composta da diverse concatenazioni di atomi, ed è la conseguenza di una serie di strutture tra loro complementari che si presentano in modo naturale alla nostra vista. Un’altra delle sculture, «The Stone Monkey Pbr», è composta da una serie di sfere stampate in 3D che riproducono dei materiali digitali utilizzati in Cgi. Quando si costruiscono un video o un’animazione, si hanno a disposizione dei materiali digitali che sono l’esatta riproduzione delle texture dei materiali reali. Sono «spalmati» su delle sfere per mostrare come cambia la luce a seconda dell’angolazione in cui cade. Anche in questo caso mi interessava mostrare il meccanismo di qualcosa che generalmente vediamo come già costituito. Credo sia un modo per comprendere meglio le varie fasi di un processo. Per esempio, un elemento come la pelle, ma anche tutte le texture che costituiscono la realtà, è il risultato di una serie di processi lunghi e complessi. Una texture digitale raggiunge un risultato apparentemente identico, ma partendo da presupposti completamente diversi.
Che ruolo occupa «Second Order Reality» nella sua ricerca?
Credo sia il proseguimento di una ricerca su un utilizzo più introspettivo che si può fare della tecnologia, un utilizzo che permette, anche metaforicamente, di lavorare su alcuni sistemi del pensiero, soffermandosi sulla parte più intima e difettosa dei nostri processi, che può aiutare a comprendere, anche attraverso una serie di errori, alcuni meccanismi del nostro funzionamento.
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