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Guglielmo Gigliotti
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Fondata nel 1898, la Galleria Russo di Roma è la più longeva d’Italia, e una delle maggiori nel commercio di opere futuriste, da Balla a Boccioni, Severini, Russolo e Prampolini, a Dottori, Depero, Thayaht, Tato, Crali e Peruzzi. La questione falsi è una piaga, rispetto alla quale il titolare Fabrizio Russo ha imparato ad adottare i necessari antidoti. Vediamo quali.
Quanto è grave per lei la questione dei falsi tra le opere futuriste?
La gravità della questione dei falsi è direttamente proporzionale all’interesse del mercato per questo periodo storico. Quindi è molto elevata.
Come si spiega il fenomeno della falsificazione dell’arte futurista?
In generale è sempre esistito. Ma è cresciuto a seguito delle grandi mostre nazionali e internazionali d’arte futurista degli ultimi 5-6 anni. Questo interesse istituzionale ha generato l’interesse di mercato, tra cui esponenti di non specchiata onestà, che hanno visto bene di approfittare di questo momento storico. Ma mi si permetta di dire che il fenomeno si è affermato anche per l’imperizia dei collezionisti, da una parte, e dall’altra, di archivi dalla conduzione non limpidissima.
Iniziarono per primi i futuristi a falsificare le loro opere. Crispolti, elencò a riguardo, tra gli artisti che nel secondo dopoguerra falsificarono sé stessi, Severini, Oriani, Carrà, Corona, Delle Site, Peruzzi. Crispolti definì il fenomeno, proprio in un’intervista per «Il Giornale dell’Arte», «il vizietto dei futuristi»…
Tengo a precisare che Crispolti parlava di «retrodatazioni»: altro conto è la creazione di un’opera falsa. Il «vizietto dei futuristi» è stato quello di realizzare un’opera, per esempio, nel 1950, ma datarla 1920. Una pratica adottata anche da molti altri big, de Chirico su tutti. Fatto sta che quelli non sono falsi, per come usualmente li si intende. Diciamo che la retrodatazione è un peccato veniale, il falso un peccato mortale.
Chi sono i futuristi più falsificati?
Facciamo prima a dire quali sono quelli non falsificati. Tra di essi ci sono, non a caso, quelli tutelati da archivi seri, scientifici e affidabili. Come quello di Gerardo Dottori, presieduto da Massimo Duranti, o quello di Gino Severini, gestito da Romana Severini e curato da Daniela Fonti, o di Enrico Prampolini, controllato da Massimo Prampolini. O quello di Tato, sempre in mano a Massimo Duranti.
Si ricorda un caso esemplare di falsificazione di maestri futuristi?
Un singolo caso esemplare no, ma posso asserire che molte attribuzioni recenti alla mano di Giacomo Balla o di Umberto Boccioni mi lasciano francamente perplesso.
Che cosa potrebbe costituire un argine all’ondata dei falsi?
Una rivoluzione normativa, che preveda, ad esempio, l’obbligo degli archivi di inviare a un preposto ufficio del Ministero della Cultura documentazione relativa alle archiviazioni svolte. E che impedisca che archivi siano gestiti da persone singole, anziché da comitati scientifici, con specifiche responsabilità per ciascuno dei componenti. Tra di essi ci deve essere un esperto di materiali, perché oggi i falsari sono diventati bravissimi.
Che cosa consiglierebbe a un collezionista di Futurismo, per metterlo in guardia?
Studio. Prudenza. Spirito d’osservazione. Quest’ultimo punto è fondamentale, perché di alcuni artisti (e di certo non solo futuristi) esistono troppe opere sul mercato. Di un artista scomparso 50 anni fa è lecito trovare, ogni anno, poche opere, ma quando le opere sono numerosissime, e guarda caso provenienti sempre dalle stesse gallerie, la cosa dovrebbe mettere in allarme.
Le è mai capitato di vedere un’opera presentata come originale futurista e aver pensato «qui gatta ci cova…»?
Innumerevoli volte. A volte con opere sottopostemi da responsabili degli archivi stessi, magari con fotografie mandate via WhatsApp. Mi sentivo di essere finito dentro il film di falsari «La banda degli onesti», con Totò e Peppino De Filippo…
Le è mai capitato, invece, di essere stato ingannato?
Sì, ma non su un falso, su una retrodatazione, e mi sono fermato in tempo. Era vent’anni fa.
Qual è l’opera futurista o prefuturista, da lei trattata, che hai più amato?
Forse «Ritratto di Fiammetta» di Umberto Boccioni, del 1909. Ma sono anche molto legato a «Ritratto in blu» di Severini, del 1904, un’opera di quelle che io definisco «gemmata». Ovvero avente le seguenti qualità: buona fattura, buon periodo, soggetto tipico, buono stato di conservazione, buona provenienza, ed infine, fondamentale, una completa e approfondita storia bibliografica. In altre parole, l’opera, soprattutto se importante, non può nascere dal nulla, semplicemente attribuendole una provenienza familiare o di prestigiosa collezione, non documentata e difficile da attestare.
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