Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliQualunque amante dell’arte che abbia anche solo una minima conoscenza dell’opera di Luca Giordano (1634-1705) si può lecitamente domandare come diavolo abbia fatto a dipingere tanti quadri e tanti affreschi e quanto abbia dovuto lavorare per riempire chiese e sale di musei di tutto il mondo. Ritorna in mente, per assonanza, un film di Woody Allen del 1972: «Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere». Nel film un giullare medioevale italiano appare teso nel disperato tentativo di aprire la cintura di castità di una damigella; dopo inutili sforzi implora: «Madonna bisogna fare presto, altrimenti arriverà il Rinascimento e dovremo metterci a dipingere! E non ci sarà più tempo per nulla d’altro». Giordano, vissuto nel tempo del barocco, ha avuto anche lui solo il tempo per dipingere.
Molti i modi di avvicinarsi a Luca Giordano. Senza dubbio, il metodo colto, sofisticato e indagatore di Stefano Causa, che, coadiuvato da Patrizia Piscitello, ha curato per il Museo e il Real Bosco di Capodimonte le due straordinarie mostre dedicate al pittore tenutesi a Parigi al Petit Palais fra il novembre 2019 e il febbraio 2020 e quella del Museo di Capodimonte a Napoli, aperta nell’ottobre 2020, ancora in corso pur fra i tormenti del Covid. Ma non è da buttare il metodo, più semplice, quello di godersi i quadri di questo stratosferico artista e basta.
Quadri vigorosi, colate di pittura ribollente carica di frenesie e acrobazie dei sensi, con arcangeli che menano botte da orbi a angeli ribelli buttandoli all’inferno, cadaveri di appestati verdastri con monatti che se li portano via con mascherine forse più sicure di quelle che ci hanno propinato in questo periodo. Veneri ignude dormienti o sveglie, dee e ninfe con pelli di latte e seta, in grado di resuscitare i morti. Una festa per gli occhi tutta da godere.
Particolari straordinari come le capre che trainano come siluri Galatea in acqua e anche… ridono: le più belle capre dell’arte italiana; o quel puttino che regge un cuore palpitante nella Pala della Madonna del Rosario; tutti lo vorremmo in casa a parlarci d’amore. Giordano poteva dipingere qualsiasi soggetto. Come lui solo Rubens.
Se gli avessero detto di immaginare uno sciame di angeli che puntavano il volo verso la terra, li avrebbe fatti in 3D in un’ora, minacciosi come un nugolo di calabroni. In grado di immaginare e realizzare tutto quanto passa nella testa; ogni fantasia diventava realtà: paesaggi, miti o santi.
Ma chi era Luca Giordano? Una vita straordinaria seminata di stelle lucenti? Non illudetevi: Luca fu un uomo magro, fine, elegante, educato, a cui non successe nulla di romanzesco. Né delitti, né amori, né duelli. Fu ottimo cittadino, suddito rispettoso, esemplare sposo e padre di dieci figli. Tutta la sua vita è concentrata sulla punta dei pennelli. La sua fama dilagò presto per tutto il regno di Napoli con una pioggia di commissioni, desiderato quasi in ogni luogo d’Italia, viaggiò come una trottola e a coronamento di tanta carriera fu chiamato nel 1692 da Carlo II in Spagna dove rimase fino al 1702 onoratissimo.
Lavorò come un matto fino quasi all’ultimo giorno della sua vita, fecondo di quadri come forse nessuno nella storia dell’arte italiana. Morì nel suo letto, con tutti i sacramenti. Il funerale fu un vero appenning alla napoletana. Simpatico, faceto, spiritoso, sapeva trattare con intelligenza e sottile savoir faire con i suoi committenti, fossero religiosi o laici, imperatori o papi. Ma guai a farlo seccare, diventava un menagramo, uno iettatore, come sperimentò a sue spese a Napoli il vicerè di Spagna, che lo aveva maltrattato. Fu pubblicamente diffidato da altri membri della corte. Ne morì di vergogna dopo pochi giorni.
Lo stesso capitò in Spagna al pittore Claudio Coello, invidioso del troppo successo dell’italiano presso il re. Cercò di danneggiarlo. Rimproverato dal monarca per questi suoi atteggiamenti, Coello si prese un coccolone. Morì in pochi giorni, con Giordano che cortesemente (e forse beffardamente) si recò a salutarlo prima dell’estremo viaggio.
Peggio andò a Carlo Dolci, gentile pittore di Madonne fiorentine, che ebbe la sfortuna di incontrare Luca a Firenze. L’artista napoletano disse al collega che era bravo, ma troppo lento. Sarebbe morto di fame con quel sistema. Non solo, ma terminati i lavori a Palazzo Riccardi, gli fece vedere il malloppo di soldi guadagnato in tempi rapidi. Dolci, sconvolto, si sentì un fallito, andò in depressione e ne morì in pochi giorni. Ricordando, in seguito, Giordano ci piangeva sopra. Lacrime di coccodrillo, probabilmente.
Luca con il suo lavoro divenne ricco, ricchissimo, lasciò un capitale di centotrentamila ducati investiti e molte altre migliaia in contanti. La sua casa rigurgitava di argenterie, gioielli, arredi preziosi, vesti splendide, numerose carrozze. Le sue figlie fecero matrimoni rilevanti, diventando anche nobili, i figli ebbero carriere prestigiose. Sapeva però bene chi era, nei suoi numerosi autoritratti si rappresenta sempre con grande dignità; squadra lo spettatore con sguardo indagatore che sembra uno scanner, con gli occhiali sempre sulla punta del naso, parrucca e, a volte, qualche gioiello, come la catena d’oro donatagli dal granduca di Toscana: per il «Pittore maraviglioso, fatto da Dio per soddisfare ai principi».
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