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L'accesso alla galleria del ninfeo dalla Villa San Marco. © Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo /Parco Archeologico di Pompei

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L'accesso alla galleria del ninfeo dalla Villa San Marco. © Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo /Parco Archeologico di Pompei

Il nuovo Museo Archeologico di Castellammare di Stabia

Ospitato nella Reggia di Quisisana, è dedicato a Libero d'Orsi, che riscoprì Stabiae

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Giuseppe M. Della Fina

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Il panorama dei musei italiani si è appena arricchito: è stato, infatti, aperto al pubblico il Museo Archeologico di Castellammare di Stabia (Na) allestito negli spazi restaurati della Reggia di Quisisana e intitolato a Libero D’Orsi. Va, innanzitutto, ricordato il personaggio a cui si è scelto di dedicarlo: Libero D’Orsi (1888-1977) era un uomo di scuola, un preside con una passione grandissima per l’archeologia. A lui si devono sia la ripresa delle indagini archeologiche sull’altura di Varano, dove con ogni probabilità sorse Stabiae sin dalle prime fasi della sua storia, sia l’allestimento di un primo museo accolto all’interno di un istituto scolastico.

Amedeo Maiuri, in Passeggiate campane, pubblicato in una nuova edizione nel 1950, ricorda il suo impegno, che iniziava a muovere i primi passi: «Di cespuglio in cespuglio, è risalito di costa in costa fino al ciglio del poggio ove, in mezzo a un bel campo di piselli e di fave, fra le prime gemme delle viti, s’è incontrato nella sala di quel triclinio con Ganimede investito da Giove del ministerio di coppiere». Poche righe più avanti aggiunge: «È rimasto lassù a sorvegliare il lavoro della riscoperta di Stabia». Da quel suo impegno è sorta un’attenzione nuova per il passato della zona e la volontà di conservarne la memoria.

Un’altra fase importante per la riscoperta della città si era avuta in precedenza, durante il Settecento, quando i Borboni promossero scavi alla ricerca di antichità da collezionare. Le indagini, portate avanti per ventidue anni, vennero interrotte nel 1782 per le aspettative suscitate dagli scavi di Pompei ed Ercolano. C’è da aggiungere che non furono condotte in maniera esemplare anche per gli approcci metodologici dell’epoca: gli ingegneri militari, che diressero le operazioni, fecero rilevare comunque gli edifici rinvenuti e tennero appunti.

Quella stagione di ricerche è stata ricostruita (e si continua a farlo) per quanto possibile proprio sulla base di quei disegni e delle scarne relazioni: si tratta, in fondo, di scavi diversi eseguiti in archivio. Tutto questo è narrato in apertura del nuovo percorso museale realizzato per volontà del Parco Archeologico di Pompei, in collaborazione con gli Enti locali, e seguendo un progetto scientifico curato da Massimo Osanna e Francesco Muscolino, in collaborazione con Tiziana Rocco e Serena Guidone.

Prima di entrare idealmente nel museo, occorre soffermarsi sull’edificio che lo ospita: costruito durante il XIII secolo dai sovrani angioini come luogo di svago e di cura, fu ristrutturato completamente dal re Ferdinando IV di Borbone nella seconda metà del Settecento. Il sovrano lo trasformò in un palazzo per la villeggiatura e la caccia; la sua attenzione s’indirizzò anche verso il parco che venne ampliato e dotato di viali, scalinate, fontane e giochi d’acqua sfruttando le sorgenti naturali e la ricca vegetazione delle pendici del Monte Faito.

Dopo l’Unità d’Italia, la reggia entrò nella disponibilità del Demanio dello Stato e ha conosciuto usi diversi sino a cadere in un abbandono completo e nel degrado amplificato dai danni del terremoto del 1980. Negli anni successivi l’attenzione tornò sulla struttura e prese avvio un progetto di restauro completato nel 2009. Ora si auspica che la Reggia di Quisisana possa divenire un polo di eccellenza del territorio. Il museo attuale si articola su quindici sale e, dopo quelle dedicate all’illustrazione della reggia e alla riscoperta di Stabiae, s’incontrano quelle dedicate al centro in età preromana, attraverso la testimonianza della necropoli di Santa Maria delle Grazie (VII-III secolo a.C.) e del santuario in località Privati (IV-II secolo a.C.), e in epoca romana testimoniata dai resti di una serie di ville d’otium, dove comunque si svolgevano attività produttive in settori appositamente dedicati.

Lungo il percorso espositivo s’incontrano in sequenza: Villa San Marco che presentava stanze decorate in maniera raffinata, porticati e ampi spazi verdi; Villa del Pastore, che si estendeva su un’area di 18mila metri quadrati ed era caratterizzata da un’ampia terrazza rivolta verso il mare; la lussuosa residenza nota come Secondo Complesso articolata intorno a un grande giardino; Villa Arianna, da cui provengono esempi straordinari di pittura romana come la celebre «Flora».

E, ancora, Villa del Petraro, che era in ristrutturazione al momento dell’eruzione del 79 d.C.; Villa di Carmiano con uno spazio importante dedicato alla produzione, come suggerisce il rinvenimento di numerosi attrezzi agricoli. Nel museo sono approfonditi inoltre i temi dell’alimentazione e del lavoro agricolo, nel cui ambito era centrale la produzione di olio, vino, latte e formaggi. Stabiae riemerge in tutta la sua vitalità e raffinatezza che si poteva solo intuire dalle lettere di Marco Tullio Cicerone all’amico Marco Mario, che vi risiedeva.

L'accesso alla galleria del ninfeo dalla Villa San Marco. © Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo /Parco Archeologico di Pompei

Recipiente con coperchio (lekane) a figure rosse dalla necropoli di Madonna delle Grazie, tomba 7, IV secolo a.C. © Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo /Parco Archeologico di Pompei

Perseo con testa di Medusa, particolare di decorazione parietale in IV Stile. © Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo /Parco Archeologico di Pompei

Giuseppe M. Della Fina, 26 novembre 2020 | © Riproduzione riservata

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