Arianna Antoniutti
Leggi i suoi articoliIl collettivo «Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali» nasce nel novembre del 2015 con l’obiettivo di indagare il mondo del lavoro nel settore della cultura, evidenziandone criticità e problemi. Nel 2019 viene creata l’omonima associazione, e l’attenzione della stampa non tarda ad arrivare. Questo grazie soprattutto a indagini condotte da «Mi riconosci» attraverso il sistema del sondaggio/survey, come l’inchiesta «Cultura, contratti e condizioni di lavoro» presentata nell’ottobre del 2019 alla Camera dei Deputati.
«Mi riconosci» ha recentemente fatto deflagrare un tema, in passato più volte denunciato dalla stessa associazione: il sistema di appalto esterno, nei musei, dei servizi di accoglienza al pubblico. Gli operatori impiegati in settori quali accoglienza, bookshop, biglietteria, sorveglianza delle sale, dicono gli attivisti dell’associazione, andrebbero inquadrati secondo il contratto collettivo nazionale di lavoro Federculture, lo standard contrattuale per i professionisti della cultura.
Invece, secondo una prassi ormai diffusa nei musei italiani (come il Museo del Cinema e il Museo Egizio a Torino, i Musei Civici a Trieste, il Museo degli Innocenti a Firenze...), a questi operatori viene applicato il contratto dei servizi fiduciari, relativo alla guardiania armata o non armata. Oltre all’evidente disparità fra le mansioni, la differenza, dal punto di vista della retribuzione è sostanziale: 8,50 euro netti l’ora per il contratto Federculture, 4,20 euro netti per i servizi fiduciari. Una cifra iniqua, peraltro relativa a un contratto che da 7 anni attende un rinnovo e un aumento salariale.
Inoltre, poiché le gare d’appalto vengono gestite con la logica dell’offerta economica più vantaggiosa, questo porta a ribassi che vanno a gravare, inevitabilmente, sul costo del lavoro e sul salario dei dipendenti. Per la mostra di Giovan Francesco Caroto alla Gran Guardia di Verona, ad esempio, intorno alla quale «Mi riconosci» ha raccolto dati e testimonianze, l’offerta che ha portato la società Rear alla vittoria dell’appalto, con il suo ribasso al 29,5%, è stata giudicata «anomala», ma l’anomalia non ha impedito l’aggiudicazione.
È evidente come sia necessaria una regolamentazione, a partire dai ribassi in sede di gara, fino alla definizione della tipologia dei contratti da adottare. Già nel 2019, ad esempio, il Tar di Milano emise una sentenza in cui l’applicazione del contratto dei servizi fiduciari ai lavoratori dei Musei Statali milanesi venne giudicata «non coerente, per ambito tematico, con l’appalto».
Federculture è l’associazione che rappresenta importanti aziende culturali del Paese, insieme a Regioni, Province, Comuni e tutti i soggetti pubblici e privati impegnati nella gestione dei servizi legati alla cultura, al turismo e al tempo libero. Ne è direttore dal 2020 Umberto Croppi, che spiega il punto dolente della questione sui servizi in appalto: «Mentre i dipendenti interni di musei quali ad esempio il MaXXI o l’Egizio di Torino sono contrattualizzati secondo lo standard Federculture, non esiste obbligo per una società esterna di attenersi a tale contratto. Ma se nei musei si cominciasse, sulla spinta delle richieste dei lavoratori, a porlo come clausola obbligatoria negli appalti, questo sarebbe sicuramente d’aiuto. I due anni di pandemia che abbiamo alle spalle hanno fatto emergere il problema del riconoscimento degli operatori della cultura. Il nome che l’associazione “Mi riconosci” si è dato è certo significativo.
È addirittura difficile compiere il censimento di tali figure professionali, e sicuramente mancano regole valide per tutti. È sempre più frequente che siano gli stessi dipendenti del settore a chiedere con forza l’applicazione del contratto Federculture. Creato nel 1999, è l’unico contratto nazionale specifico per i lavoratori della cultura e, alla luce di oltre vent’anni di applicazione, si è rivelato non solo uno strumento utile per le aziende ma con molte garanzie per gli operatori. Detto questo, intanto si sta ampliando il raggio delle società che autonomamente vi ricorrono, come ad esempio la Aditus, che ha in gestione spazi archeologici quali il Teatro antico di Taormina e il Parco archeologico della Neapolis di Siracusa.
Più crescerà il numero di quanti adottano il nostro contratto, più gli altri si sentiranno in dovere di farlo». E prosegue: «La consapevolezza dei propri diritti da parte del lavoratore è altrettanto importante, come pure il risalto dato dalla stampa nazionale a un fenomeno che, finora, era rimasto nell’ombra. Il vero snodo, però, è legato al fatto che un contratto nazionale, per essere vincolante, deve avere una forza di legge. In questo momento c’è una forte convergenza di interessi e di esigenze, per cui la questione va posta sino a mettere in moto un meccanismo che possa andare a incidere a livello normativo. Da parte nostra ci stiamo impegnando nel far comprendere alle società di servizi che rendere omogeneo questo aspetto mette anche loro al riparo da disparità nelle valutazioni economiche al momento delle gare d’appalto.
Su un altro fronte inoltre, stiamo lavorando al rinnovo del contratto Federculture, che attendeva da tre anni un aggiornamento e, nel corso di quest’anno, ci dedicheremo a un tema che sarà anche il focus del nostro rapporto annuale, ossia il lancio di una campagna per il contratto unico della cultura. Posso dire che, da colloqui ancora informali che stiamo tenendo, sia le organizzazioni sindacali sia quelle datoriali sono favorevoli all’idea di immaginare un contratto unico».
Dal punto di vista imprenditoriale, ridurre il costo del lavoro è una buona strategia? «Non lo è sicuramente, chiarisce Croppi: quella della cultura è una filiera molto articolata, per cui definirne in maniera corretta le figure professionali, e valorizzarle, è utile per tutti. È un tipo di lavoro che richiede, oltre alle competenze, una dose di passione e di attaccamento. Pensiamo al personale di sala in un museo: se non è gratificato o se non è messo in condizione di poter offrire una reale attività di mediazione culturale, ne verrà penalizzata la stessa qualità del servizio svolto. Questo, al di là degli aspetti culturali, educativi e sociali, ha un’inevitabile ricaduta negativa anche sul piano economico». I lavoratori l’hanno compreso. Lo capiranno anche le aziende?
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