Stefano Causa
Leggi i suoi articoliFirmato da Riccardo Lattuada e Laura Raucci questo non solo è il primo catalogo ragionato di uno tra i più brillanti ed estrosi pittori di secondo Seicento a sud di Roma; è anche un libro che rimette in pista quello statuto monografico oggi un po’ in crisi nella frustrante segmentazione delle discipline storico artistiche.
Di età ed esperienze diverse, i due autori avevano già collaborato offrendoci un affondo su Nicola Vaccaro, non ultimo dei nomi utili ad articolare la ribalta del Barocco meridionale. Ci sarebbe di che rifiatare; non fosse altro perché un cimento a quattro mani è la rappresentazione plastica di un tramando di saperi. Sta a significare che hai seminato bene e viene il momento di raccogliere.
Artista e gentiluomo come Arsenio Lupin, Giacomo Farelli meritava un rendiconto di questo peso. La quantità di motivazioni formali e culturali che emerge dal suo lavoro lo rivela capace di muoversi, con spirito autonomo, in quel terzo quarto del secolo che, tra il Vicereame Venezia e Firenze, vede il decollo del dirigibile di Giordano.
Recettivo e intelligente fa un pezzo di strada con alcuni dei nostri e, fuori di casa, con quegli affabulatori genovesi che usano il colore con analoga funzione antinaturalistica. Ragionare su Farelli significa ripensare a quel secondo Seicento trascurato perché poco caravaggesco (e dal canto suo la Raucci sa ben amministrare una bibliografia di livello discontinuo).
Ora nel rettilineo dal Naturalismo al Barocco il pendolo del mercato (e dell’interesse degli studiosi) gravita per tradizione sul primo dei due poli; in ossequio più che in omaggio alle idiosincrasie di chi, come Roberto Longhi, aveva avviato la storia dell’arte meridionale sul binario unico della pittura della realtà. Come accade nelle schematizzazioni più persuasive, rimane fuori l’essenziale; a cominciare dall’accoglimento degli idiomi bolognesi e barocchi nel nostro lessico.
Nel libro su Farelli gli autori fanno una cosa che, di solito, gli studiosi si guardano bene dal fare: mostrare i ferri del mestiere in un patto preventivo col lettore. Una lezione di metodo (e onestà intellettuale). Quando ci si deciderà in un riesame non pregiudiziale della critica a Napoli nel trascorso cinquantennio il riferimento a Lattuada salterà fuori più o meno a ogni pagina.
Due le stazioni da consigliare a chi voglia familiarizzarsi con l’amplissima strumentazione di questo studioso: il volume del 1988 sul Barocco a Napoli e in Campania e il catalogo di una mostra del 1997, Effimero barocco, dentro cui, insieme alla riscoperta della vocazione scenotecnica di maestri cruciali come Giordano o Vaccaro (la pittura e la scultura come suggerimento del teatro), si ribadisce l’importanza del barocco romano nell’arte meridionale.
Oltre ai maggiori interlocutori meridionali di Longhi, ci sono Federico Zeri e Haskell tra gli indirizzi preferenziali nell’agenda di Lattuada; ma s’intuisce la frequentazione di storici come Galasso e Mario Del Treppo. Quando quarant’anni fa cominciò a dissotterrare un pittore semi noto come Francesco Guarino (banco di prova se mai ce ne sia stato uno per la storia sociale dell’arte) Lattuada si situò dalla più favorevole delle posizioni.
Si trattava infatti nientemeno che di superare le coordinate del realismo marxista con cui continuava a divulgarsi il Seicento di matrice caravaggesca. Inoltre, con prosa scevra dall’aggettivazione selvaggia dentro cui si erano impantanate le scritture sui pittori napoletani, sfiorati dalle parole e mai raggiunti; Lattuada mostrava la necessità di superare l’impressionismo critico longhiano ridotto a un misero tronco scortecciato. Va anche a suo merito se siamo riusciti ultimamente a realizzare due rassegne su Giordano, accomodandolo in un secolo meno angusto.
Vita ed opere di Giacomo Farelli (1629-1706). Artista e gentiluomo nell’Italia Barocca, a cura di Riccardo Lattuada e Laura Raucci, 380 pp., 128 pp., ill. col. e b/n, Tau Editrice, Todi (Pg) 2020, € 80
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