Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliSecondo recenti ricerche, il numero di neuroni in un cervello umano è di circa 86 miliardi, che sommato agli altri 100 miliardi di cellule di 3mila tipi che popolano la nostra materia grigia diventa equiparabile al numero di stelle presenti nella Via Lattea, stimato da 100 a 400 miliardi. Per funzionare il cervello genera elettricità, cioè ogni volta che ci viene un’idea, compiamo un’azione o più semplicemente per il solo fatto di esistere produciamo dei watt. Insomma anche noi, come qualunque altro corpo nell’universo, siamo fatti di energia, e lo sa bene Patrick Tuttofuoco che ha concepito la sua ultima serie di lavori come dei campi energetici con cui «interagire».
«Abbandona gli occhi», nella Sala Convegni Banca di Bologna-Palazzo De’ Toschi dal 30 gennaio al 18 febbraio, a cura di Davide Ferri, presenta nuove installazioni scultoree realizzate con un mix di materiali classici e sintetici, dal marmo al metacrilato, dal neon al ferro alla plastica, nel tipico stile con cui Tuttofuoco rielabora e fonde influenze minimal, pop e concettuali. Soggetto ricorrente la figura del corpo: volti dormienti, mani, mezzi busti, gambe e occhi danno forma a opere da percepire, da captare come fanno le antenne con le onde radio sintonizzate nella giusta frequenza.
«The power napper (white Rio)» (2017) è il mezzo busto di un bambino modellato nel marmo bianco di Carrara. Gli occhi chiusi, la testa sopra un braccio come quando ci si addormenta sul banco, la schiena formata da una propagazione di forme concentriche stratificate, che ci conducono sempre più in profondità. Più avanti un corpo disteso in metacrilato fosforescente è diviso in due, come accade durante il numero di un illusionista. Il rapporto tra opera e architettura fa della mostra un luogo esperienziale, un paesaggio quasi onirico da attraversare con una visione termica o notturna. La vista è un senso ingannevole, spesso ci illude, ci fa vedere solo ciò che vogliamo vedere. Il buio, come il silenzio, ci permette di accedere a verità più profonde, a consapevolezze meno particolaristiche.
L’immagine reiterata nella mostra è sempre quella di un corpo molle, abbandonato e dormiente, preda di quello stato di semi-coscienza tipico del sonno, del sogno o del sonnambulismo, in cui gli occhi sono inattivi e tutte le immagini che il nostro cervello elabora svaniscono appena li riapriamo. È un susseguirsi di fluttuazioni energetiche di corpi a riposo, evocate anche grazie a uno scenografico allestimento che invade le ampie sale espositive. Una grande saetta di luce bianca carica lo spazio di elettricità. La silhouette minimalista al neon di un corpo rovesciato ci libera dal vincolo della gravità. I contorni di grandi mani che fluttuano nello spazio alludono agli altri sensi che abbiamo a disposizione per conoscere e percepire il mondo, alle connessioni che dobbiamo accogliere e innescare per crescere, per capire, per trasformarci. Due mani porgono al visitatore due grandi biglie: è un richiamo all’iconografia di santa Lucia, tradizionalmente rappresentata mentre sorregge gli occhi su un piattino. In fondo avere fede significa credere a ciò che non si può vedere.
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