Laura Lombardi
Leggi i suoi articoliNel Battistero, il «mio bel San Giovanni» come lo chiamava Dante, dal 2017 è in corso il restauro (che dovrebbe compiersi entro la fine dell’anno) delle superfici interne dal piano di calpestio fino all’imposta della cupola e delle loro decorazioni musive. Il progetto, finanziato per oltre un milione e mezzo di euro dall’Opera di Santa Maria del Fiore, sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza e la collaborazione di importanti istituti diagnostici, è stato affidato all’impresa Cellini (2018-19) e a Claudia Tedeschi (dal 2019).
Quel prezioso scrigno che Vasari descriveva «in tutte le sue parti misurato e condotto perfettamente», invita il visitatore a vedere «cose mirabili», come iscritto nello Zodiaco sul pavimento: oltre 1.100 metri quadrati di superfici in bianco marmo di Carrara e verde di Prato, che ricorre anche dietro il sarcofago del vescovo Ranieri (addossato alla parete est e datato 1113 nell’epigrafe), cui si aggiungono dal Duecento (grazie agli sforzi congiunti della Chiesa e della città rappresentata dall’Arte della Calimala) i rivestimenti del pavimento a marmi intarsiati e altri 200 metri quadrati di decorazioni musive della cupola con al centro il «Giudizio finale» e nei quattro registri le storie della Genesi, di Giuseppe ebreo e di Cristo e del Battista (opere che videro impegnate varie generazioni di artisti tra cui Cimabue); infine altri 100 metri quadrati di dorature.
Una volta conclusi questi mosaici, come nei battisteri paleocristiani di cui quello fiorentino voleva apparire degno erede, ai primi del Trecento si decise di estendere la decorazione al tamburo della cupola, all’esterno della galleria del matroneo (ricoprendo quindi l’originale rivestimento marmoreo) e all’interno del matroneo stesso. L’intervento su questi mosaici, in attesa di affrontare quelli della cupola e del tamburo, ha portato a scoperte di rilievo tra cui un unicum nella realizzazione della tecnica musiva, il cui supporto è costituito da tavelle di terracotta scalfite con intaccature profonde prima della cottura per aumentarne la scabrosità e rendere più efficace l’ancoraggio nell’alloggiamento.
Sulle tavelle è poi realizzata una sinopia e quindi il mosaico con metodo diretto e a giornate, tutt’oggi leggibili. L’impasto non è quello della tradizionale malta, ma un mastice risultato da un composto di legante aereo, olio di lino cotto e colofonia (una resina vegetale) impastati a caldo. Viene dunque evitata la base acquosa, che non avrebbe lasciato tempo al mosaicista di eseguire l’opera.
Secondo un progetto messo a punto dalla direttrice dei lavori Beatrice Agostini e da Anna Maria Giusti, già direttrice del settore mosaico e commesso dell’Opificio delle Pietre Dure, insieme alla restauratrice Sara Guarducci dell’Opd e in confronto costante con l’architetto Vincenzo Vaccaro, consigliere dell’Opera di Santa Maria del Fiore, l’attuale restauro è stato improntato a una metodologia differenziata.
Troviamo quindi integrazioni a pasta vitrea, a malta incisa e, per le mancanze di grande estensione, integrazioni in stampa 3D facilmente rimovibili. Altra scoperta riguarda le tracce di foglia d’oro rinvenute sui capitelli dei matronei a suggellare l’abbagliante splendore enfatizzato dalla luce delle candele. Il colore naturale della pietra alle pareti è stato ritrovato rimuovendo la cera pigmentata che era stata applicata sul marmo verde di Prato per coprire il bianco del calcare formatosi a causa di infiltrazioni di acqua dalla copertura.
Tra gli interventi anche quello di pulitura, anch’essa mirata a far risplendere le dorature, del monumento funebre all’antipapa Giovanni XXIII, opera di Donatello e Michelozzo.
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