Stefano Causa
Leggi i suoi articoliUna controstoria di Caravaggio? Non sarebbe educato neanche pensarci ora che la riemersione a Madrid di un «Ecce Homo» del tempo napoletano (di un magnetismo poco meno che mesmerizzante) è apparsa come l’unica notizia fuori dal coro, anzi fuori dal Covid! Eppure mai come in quest’occasione potrà non essere inutile ricapitolare i momenti salienti della fama novecentesca del maestro e, insieme, provarsi nella conta dei pochi che tentarono, a tutt’uomo, una resistenza alla montante Caravaggiomania che, dentro e fuori le regioni e le ragioni della Storia dell’arte, ha appena compiuto settant’anni.
Per il pubblico grande, piccolo e medio, Caravaggio è stato inventato nel 1951 quando, dopo lunga compressione che, in Italia, è soprattutto farina di Roberto Longhi, si aprì la mostra nel Palazzo Reale di Milano. Fino ad allora la scena era stata tutta per Leonardo e compagnia di giro rinascimentale (le dannunziane Vergini delle Rocce uscirono a puntate tra il 1894 e il 1895). Curioso che, mesi dopo l’inaugurazione di quella mostra caravaggesca precipitassero inesorabilmente le credenziali del genio vinciano di cui, nel 1952, pure si celebrerà il cinquecentenario: tra le riserve di Longhi (che Leonardo guardava con sospetto) e l’interesse di un Gadda o un Dionisotti.
Ma, con buona pace di Dan Brown, e dell’odierna fiction televisiva, Leo è mito destinato a sfumare. Mentre la passione caravaggesca è uno dei contrassegni dell’Italia che esce dalla guerra strutturandosi quando si mette a punto quella peculiare versione del realismo caravaggesco che chiamiamo neorealismo. I nostri genitori e fratelli maggiori hanno imparato a guardare Caravaggio al cinema.
Pasolini e Visconti sono storici d’arte di riflesso. I san Giovanni Battista di Caravaggio sono ragazzi di vita. Sergio Citti e Ninetto Davoli. E dato che le mostre si fanno anche per i pittori di mestiere, il portavoce per immagini del partito comunista di allora, Renato Guttuso comincia a inzeppare di citazioni caravaggesche i suoi dipinti. Anzi: di Caravaggio addirittura scrive (sua sarà l’introduzione tutt’altro che esornativa all’albo dei classici Rizzoli).
E Caravaggio si ripresenta quando meno te lo aspetti: sempre a Milano, due anni dopo la rassegna di Longhi, alla prima grande monografica su Picasso, il «Ragazzo con l’aragosta» (1941) è una cover del «Ragazzo morso dal ramarro». Sarebbe bastato per aprire il dossier dei debiti caravaggeschi (e da Ribera) del maestro di Malaga? Certo che sì. Caravaggio è uno dei segreti meglio custoditi di Picasso, un universo ad apertura stagna.
Però non tutti ci stanno a intonare questo peana caravaggesco; anche da sinistra. Nell’estate del 1951 il siciliano Elio Vittorini conia, per i lettori di «La Stampa», un ossimoro dispettoso che, alle orecchie dei pochi che se ne ricordano, suona come una bestemmia. Naturalismo accademico. Caravaggio, dice Vittorini, reagisce contro le vecchie scuole (e fin qui ci siamo). Ma «non osa rinunciare alla bravura artigiana che quell’accademismo gli ha dato modo di conquistarsi».
La sua, conclude l’autore di un libro a modo suo caravaggesco come Conversazioni in Sicilia, «è una mano guantata di ferraglia accademica che caccia nel vivo della realtà naturale». Povero Longhi (e povero anche Caravaggio!). Quanto a Bernard Berenson tira fuori un pamphlet su Caravaggio, geniale e sollecitante come tutti i libri sbagliati, dove l’unica cosa su cui ci si soffermerà sono, prevedibilmente, le allusioni alle incongruenze del pittore. Ovvero, nel codice degli eufemismi di quegli anni, alla sua omosessualità.
Caravaggio del giro di Bloomsbury? Vade retro! Ecco che Longhi subito si affretta a negare la novelletta del Caravaggio invertito, salvo a ricordare l’interesse caravaggesco di Julien Green e che, nel 1934, André Gide lo aveva pregato di vedere il suo «Fanciullo morso dal ramarro». Ma si sarebbe dovuto attendere il 1986 perché un regista come Derek Jarman raccontasse se stesso attraverso il maestro: e come faccio a dimenticare la mirabile compostezza di Mina Gregori seduta alla prima del film su Caravaggio, al cinema Apollo in via Nazionale a Firenze, con il regista e Tilda Swinton?
Vittorini e Berenson dimostrano che Caravaggio unisce. Anche nel dissenso. Ma sono piccoli fuochi. Chi, nel 1983, si fosse trovato una banconota da centomila lire avrebbe chiuso nel portafoglio, auspici l’incisore Cionini e il disegnatore Savini, il volto di Caravaggio. Erano gli anni di Craxi e Giovanni Goria ministro del Tesoro. Ma se quella banconota l’avesse cambiata in due cinquanta, si sarebbe visto raddoppiato il viso di Bernini. Il lombardissimo Caravaggio batte il campione napoletano del Barocco romano? Impensabile nel Seicento; scontato nel 1983.
Si obietterà: in quegli anni il giovane Raffaello da Urbino guatava pensoso sulle cinquecentomila lire (e scusate se è poco, scriverebbero i fratelli Capone nella lettera). Ma a parte che quella banconota lì non è che comparisse spesso (almeno non nelle tasche del sottoscritto), siamo sicuri che oggi la classifica non andrebbe riveduta e corretta? Due anni dopo, nel 1985, nelle sale di Capodimonte, si apre una mostra dal titolo rivelatore «Caravaggio e il suo tempo». Le centomila lire sono uscite di circolazione vent’anni fa. Ma quel tempo non è ancora finito. Anzi, pare appena incominciato.
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