Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliLuoghi abbandonati, destinati nel tempo a vari usi. Storie perdute di cui molto spesso non esiste più alcuna documentazione. Memorie tramandate di generazione in generazione fino a diventare sempre più evanescenti e rare, come gli abitanti dei medesimi territori che le hanno generate. Nel corso del Novecento il Monferrato ha subito un importante processo di spopolamento, un centinaio di Comuni, disseminati in una superficie complessiva di circa 2.500 chilometri quadrati, contano per la maggior parte poche centinaia di abitanti, più o meno il numero di inquilini di un paio di grandi condomini di una città di medie dimensioni. A Camagna, prima tappa del viaggio di Panorama, l’ultimo censimento del 2024 registra 465 abitanti, e non sembra intravedersi all’orizzonte un’inversione di tendenza, nel 2017 erano 525. Il contrario di ciò che continua ad avvenire nelle città, basti pensare a Milano: oggi 2.036 abitanti per chilometro quadrato, entro il 2030 una stima prevista di 7.520 abitanti per chilometro quadrato.
Ma tant’è. Non curante di questi dati, nella cima della collina su cui si inerpica Camagna, l’imponente e secolare chiesa di Sant’Eusebio domina il paesaggio. E, proprio come il paese che la ospita, ha cambiato pelle molte volte, prima nel Trecento, poi nel Cinque, Sette e Ottocento. Dalla grande piazza su cui si affaccia, e dove Italics ha tenuto ieri la conferenza di presentazione di Panorama, si diramano le strade cittadine. La maggior parte delle case ha le persiane chiuse, sono davvero poche le persone del posto che si incontrano. La principale sede espositiva qui individuata da Falciani è l’ex orfanotrofio femminile, che a un certo punto e per un breve periodo è stato anche adibito a ospedale, ma è difficile ricostruirne la storia. Gli spazi che si visitano sono il primo piano e il piano interrato: due lunghi corridoi con una vetrata da un lato e un’infilata di stanze dall’altro e, in fondo, una cappella affrescata. Alcuni vetri sono rotti e la vegetazione si è fatta strada rigogliosa, tutto è stato sgombrato e ripulito, ma è un luogo carico di storie. Frammenti di tende, vecchi, rotti e polverosi, pendono dall’alto delle vetrate, seguendone il profilo conducono lo sguardo all’opera di Salvatore Scarpitta, «Drummer Brigade» del 1963 (Studio Gariboldi). È una struttura quadrata composta da cinghie rosse, nella tensione degli elementi che compongono quest’opera, allestita su una piccola parete bianca al fondo del corridoio del primo piano, sembra driecheggiare un grido di dolore, muto, lontano, soffocato, forse quello delle orfane, degli ammalati che hanno attraversato questo posto, dell’abbandono, ma quelle cinghie saldano e tengono insieme, sono anche la forza e la resistenza della gente di questi luoghi.
Al piano di sotto, nell’ultima stanza, al termine del corridoio, c’è quella che un tempo era la cucina. Si conservano un camino, un lavandino in muratura e accanto a esso un vecchio putagè, la stufa a legna in ghisa che si usava per scaldarsi e cucinare. È bianca, di metallo e conserva il marchio Zoppas, che la colloca negli anni Venti/Trenta del Novecento. Chi non è più giovanissimo se la ricorda, magari nella casa di campagna di qualche nonna o bisnonna, col profumo dei biscotti fatti in casa. I muri con distacchi di intonaco, le mattonelle bianche sulle pareti. Sono i segni di una quotidianità facile da immaginare, la cornice delle opere di due artiste, «Naitre au mode, c’est concevoir (vivre) enfin le monde comme relation#» di Binta Diaw del 2022 (Prometeo Gallery e Ida Pisani) e alcuni scatti della serie «Dove il cielo è più vicino» del 2014 di Moira Ricci (Laveronica Arte Contemporanea). Diaw, artista italo-senegalese, presenta una struttura di trecce di capelli, simile a una radice, su una grande e bassissima vasca nera colma di acqua. È un lavoro ispirato alle mangrovie, «sistemi agglomerati di piante che crescono insieme e si sorreggono a vicenda attraverso radici molto fitte e comunicanti. Sono rimasta colpita dal loro aspetto, dalla loro connettività, dalla dimensione poetica e metamorfica, da come cambiano e si adattano durante le stagioni, dal loro legame con la terra, l’acqua e il cielo, dal fatto che crescano sempre in zone marginali e periferiche», spiega l’artista. L’opera di Ricci, invece, raffigura una serie di casolari nel paesaggio di una Maremma altrettanto disabitata. Queste case, senza finestre, porte o aperture, diventano forme geometriche in un paesaggio astratto, come i muri scalcinati dell’edificio che le ospita. «Per bonificare e rendere fertile un terreno ci vogliono circa 20 anni, spiega l’artista. Queste case sono state vendute, perché i contadini non ce la fanno più a vivere, dovrebbero fare una coltura intensiva, che va contro l’etica della rotazione, del riposo della terra, i figli ormai vanno tutti a studiare fuori, così i poderi vengono venduti e comprati da cittadini come seconde case e la terra non viene più lavorata. Io ho tolto dall’immagine di queste case porte e finestre rendendole dei mausolei, privandole della loro identità».
«È il destino di molti paesi rurali d’Italia, abbandonati per essere vissuti da lavoratori stagionali», spiega Falciani, per questo ancora oggi è di cruciale importanza la frase del libro di Stefano Guazzo cui la mostra è ispirata: «Chi viene da fuori dovrà capire le tue radici e tu dovrai capire le sue ragioni». Radici e ragioni che mescolano un’anima agricola e una industriale, come ci ricordano le sculture «Thin nut’s skin» del 2021 di Armando Andrade Tudela (Francesca Minini): forme organiche riprodotte in acciaio inox che simulano le membrano del gheriglio intersecandosi a barre ed elementi industriali e riflettendo su un’evoluzione della civiltà umana sempre in bilico tra natura e industria, accoglienza e abbandono. Un concetto ripreso anche nella sala antecedente la cappella, dove antichi strumenti in ferro, come incudini, morse da banco e laminatoi del XVIII e XIX secolo (Alessandro Cesari) fanno da contraltare alle immagini di covoni di fieno fotografate in bianco e nero da Lala Meredith-Vula (Simondi). Un situazione di sospensione, pericolo e instabilità che sempre si genera nella contrapposizione tra qualcosa che esercita una forza e qualcosa che la subisce, tra residenti e forestieri, tra chi decide di restare o di tornare e chi di andarsene. Una contrapposizione e una ricerca di equilibrio contenuti nell’opera «The paradoxical nature of life» del 2023 di Arcangelo Sassolino (Galleria dello Scudo). Una pesantissima incudine porta al limite del punto di rottura la sottile lastra in vetro su cui è appoggiata. L’opera, come tutta la mostra, registra l’essenza stessa della vita, «il suo essere sempre in bilico tra il permanere e lo svanire», come scrive Sassolino.
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