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Stefano Causa
Leggi i suoi articoliIl coronavirus è come la nebbia di Totò: c’è ma non si vede. Eppure nessuna epidemia aveva goduto sin qui di un tale rendimento iconografico, di un simile surplus visuale. Quando usciremo tutti da questo tempo sospeso, lasciandoci alle spalle settimane di lutti e tensioni che hanno letteralmente capovolto gli assetti mentali e geografici del Paese (a Bergamo si muore, a Reggio Calabria molto meno), non sarebbe male che negli atenei di fresca riapertura docenti e allievi dialogassero sul modo in cui ci sono state restituite, creativamente, forme e immagini dell’emergenza.
La peste è un formidabile pretesto letterario come insegnano Tucidide o Camus. E lo sapeva bene, naturalmente, il milanesissimo Manzoni, storico dell’arte di riflesso, che aveva ripassato le scene e le invenzioni dei «quadroni» lombardi e piemontesi trasformando la vigna di Renzo nella più bella natura morta italiana dell’Ottocento. Ma sono stati i pittori e gli incisori a raccontarci la peste dal di dentro, scendendo «con la telecamera in spalla» tra cadaveri e becchini.
Pensiamo ai cantastorie della peste che sconvolse i fragili equilibri napoletani dopo la metà del Seicento: nei domini spagnoli la Morte è uno spettacolo da inscenare tutte le volte. Tutto sta a vedere come: se in grande o in formato domestico.
A un impareggiabile maestro di stile come Ribera, lo spagnolo trasferitosi a Napoli neanche trentenne, la pittura murale non sarà mai congeniale. Con l’eccezione di Bernardo Cavallino, i napoletani del Seicento praticano metriche ampie, pale d’altare e quadri da cabinet. Quanto a Luca Giordano, frequentò tutti i generi, ma non fu un pittore di storia. Per lo meno non allo stesso modo di Micco Spadaro che si rivela, a beneficio di noi moderni, cronista locale di significato universale.
Giordano è l’artefice plurale per antonomasia, ma gli manca del tutto quel «sentimento drammatico della vita collettiva» che Rosario Villari, prima e meglio di noi storici dell’arte, ha saputo cogliere nella pittura di Spadaro. Basta vedere come i due, Giordano e Spadaro, reagiscano alle esplosioni di violenza e agli sbocchi di sangue di quotidiana frequenza nella Napoli seicentesca, qualche volta di entità straordinaria. La peste ebbe portata tragica ma, per gli artisti sopravvissuti, fu un serbatoio inesauribile di spunti.
A costo di apparire cinici val la pena di ricordare che guerre, carestie, assedi e appartengono a pieno titolo alla storia dell’arte. A Napoli i quadri legati a quello «spettacolo» particolare, scissi tra realismo, pietà e devozione, scorrono lungo una corsia preferenziale dove si confrontano ai massimi livelli tre geni di metà secolo: Mattia Preti, Micco Spadaro e Luca Giordano. Ma nella Napoli di metà Seicento il Trionfo della Morte fu celebrato diversamente da come fu onorato nelle pesti veneziane del 1575 e del 1630, o da come accadrà a Marsiglia nel 1720.
Figurativamente parlando, qui i giorni del contagio coincidono con il decollo di Giordano e tutto lascia credere che, prima o dopo Preti, Spadaro figurasse tra i suoi interlocutori privilegiati. Però attenzione. Nonostante la buona volontà degli studi recenti Micco non è mai diventato noto al pari, poniamo, di un Cavallino che talvolta rischia di inciampare nella sua stessa bravura; in ogni caso, è rimasto sempre al di sotto della stima che meriterebbe come uno dei primi attori della scena locale.
Oltre ai cicli ad affresco nella Certosa di San Martino, che contengono fondali tra più ariosi dell’arte europea tali da «laurearlo» con un secolo e mezzo d’anticipo a primo esponente della Scuola di Posillipo, a Micco spetta un pugno di scenette di tema civile e politico ambientate nella cinta urbana, dove non era prudente avventurarsi senza scorta. Una città ignota e letale che oscilla tra Boccaccio e Roberto Saviano che nessuno ha saputo raccontare meglio di questo pittore, figlio di un fabbricatore di spade.
Il Largo del Mercatello durante la peste del ’56 è quanto di più vicino si conosca a un plein air seicentesco, ed è un soggetto che Giordano avrebbe preferito non dipingere. Non in quei termini, almeno. Conservato nel Museo di San Martino, una sorta di Musée Carnavalet napoletano, è uno dei capolavori irrinunciabili del secolo. La scenografia dei cadaveri, ammucchiati in piazza come in un giorno di mercato, è affrontata come un fatto di cronaca.
La trasfigurazione dell’episodio non attenua la partecipazione dell’artista che, a malapena, trattiene la Passione mentre si dilunga o scorre, a morsicature di pennello, sui morti e le figure che vi si affaccendano intorno, fino a chiudere la rappresentazione con il profilo dei muri umidi, come fossero impregnati del morbo. Muri di vita, li avrebbe definiti Pasolini.
Non si sa se Giordano ventiseienne se ne potesse ricordare, quando si trattò di radunare i materiali su cui lavorare per il dipinto con il tema della peste che avrebbe eseguito nei primi anni 1660 per un altare napoletano di Santa Maria del Pianto. Sicuro però che vedesse gli affreschi che Preti lasciò su due porte della città, come ex-voto.
Commissionati al pittore alla fine del ’56, quei murali erano deperiti a metà ’700. Oggi ne è rimasto uno solo: leggibile, a fatica, dopo un provvido restauro. Ma ne esistono i bozzetti che sono tra le stazioni consacrate dell’iconografia della peste e da cui occorre far ripartire la questione del rapporto, vicendevolmente fruttuoso, tra Preti (nato nel 1613) e il giovane Giordano.
Giordano si sarebbe ricordato di quei cadaveri in primo piano quando, nella porzione inferiore della tela di Santa Maria del Pianto, calibrò la più indicibile delle nature morte: un passo che sarebbe entrato nella memoria degli italiani, e soprattutto dei francesi di Sette e Ottocento.
«La vita quotidiana di una città in stato di peste, faceva notare quarant’anni fa una storica francese, Jacqueline Brossolet, mostra questo aspetto in particolare: l’esposizione nelle strade e nelle piazze di un gran numero di cadaveri di gente di tutte le età e di tutte le condizioni». Nell’anno della peste, Giordano compiva ventidue anni. Quanto passò dinanzi ai suoi occhi: i corpi abbandonati, i cani, i topi e i porci che si aggiravano tra i morti; e il resto che gli fu raccontato e che, in seguito, avrebbe confrontato con il quadro di Micco e con gli affreschi votivi di Preti sulle porte di Napoli.
Tutto questo Giordano lo avrebbe sintetizzato reinventandolo nella porzione inferiore del San Gennaro che intercede per la peste; un primo piano potente che chiude o apre la composizione: a seconda di dove si cominci a leggere l’immenso cartellone devozionale destinato a Santa Maria del Pianto.
La pala è il coronamento di un percorso stilistico e mentale che prende avvio da Rubens, avendo in Lanfranco e in Pietro da Cortona due fermate intermedie. Nondimeno l’eccezionalità compositiva del dipinto, pietra angolare del ’600 napoletano, ci è sfuggita di mano, da quando essa è stata tolta dal luogo di destinazione.
Ma se Giordano è sempre, o quasi sempre di qualità museale non è mai pittore da museo! Anche nel più ispirato degli allestimenti, perde di effetto, come succede quando lo si guardi in foto. I primi a farne le spese sono i quadroni di chiesa. Solo su di un altare, a una congrua distanza, si possono cogliere il moto ascensionale delle figure, e l’epifania dell’inaudito carnaio, eseguito con una tavolozza risentita e smagliante, episodio di caravaggismo moderno, che ha finito per surclassare il resto del quadro e sorta di prova generale per un apice di un secolo e mezzo dopo, come la «Zattera della Medusa» di Géricault.
Nella pala dell’intercessione i passaggi tra piani, oltre che la verticalizzazione dell’impianto, presumono una rispondenza con l’ambiente circostante. Il fedele è invitato a svelare lentamente le sorprese di un dipinto in tutti i sensi miracoloso che, in buona sostanza, ne contiene almeno due; se non tre. In alto la figura di San Gennaro, cui è intitolato il quadro, e in una delle prime apparizioni pubbliche nella pittura di Giordano, compare di tre quarti, in un ampio gesto di supplica; indossa un elaborato piviale bianco azzurro, memore dell’abito di San Lorenzo nel dipinto di Pietro da Cortona di San Lorenzo in Miranda a Roma.
Quel piviale si rivolta in creste dorate come spuma marina, scendendo oltre le nuvole, fin quasi a sfiorare la sigla con le iniziali incrociate del nome e del cognome del pittore. La luce, che piove da sinistra, irrora la parte superiore della tela, tutta giocata su toni chiari e ocracei, fino a incontrare la strada che conduce ad una porta di Napoli; tra le rare incursioni urbane, topograficamente riconoscibili, di Giordano.
Al confronto della città di Micco, ammorbata da miasmi e umori, la città di Giordano è una grisaglia azzurra, su cui si è depositata una leggera polvere bianca. A centro pagina, al di sotto del santo, arriva il primo monatto che trascina i cadaveri. Non lo si riconosce subito, essendo in secondo piano, e come fatto della stessa materia chiara, impalpabile dei casamenti.
Davanti a lui, che indossa una mascherina per tentare di difendersi dal contagio, i piedi del cadavere imbracato e seminascosto sbucano dalla tela entrando nello spazio fisico dell’osservatore; e sono un omaggio al Caravaggio della «Madonna delle Opere di Misericordia».
Tutto questo, e molto altro, finisce per stemperarsi gravemente all’interno di un museo, dove i quattro metri di altezza del quadro di Giordano quasi lambiscono il soffitto. Con il risultato che, concepito in origine per inglobare lo spettatore, il primo piano con la natura morta dei sette o più cadaveri riversi nelle più varie posture non si trova più all’altezza dello sguardo… ma è sceso al livello delle gambe.
Giordano è una delle vittime illustri della decontestualizzazione dell’ultimo mezzo secolo del patrimonio artistico napoletano. Probabilmente Giordano aveva previsto che chi guarda cominciasse la perlustrazione del quadro dal braccio riverso del cadavere in primo piano; in quella posizione, esso rinvia intenzionalmente al Cristo caravaggesco di Santa Maria della Vittoria, ma un occhio moderno vi immaginerebbe una prefigurazione di David: come un Marat, vittima della peste e non di pugnale!
La messa in scena di quei corpi, marcatamente teatrale nella sua evidenza, risponde a una calcolata strategia atta a coinvolgere lo spettatore. Ma per questo bisognava ingrandire al massimo lo spettacolo della Morte come, a Napoli, aveva mostrato solo il Domenichino in quello, dei rami di San Gennaro, con la raffigurazione in primo piano delle ragazze dalle mani deformi e contratte dagli spasmi.
Mentre Spadaro aveva inquadrato la scena dall’alto, in un piano sequenza che farà scuola per almeno settant’anni (fino all’incisione dal dipinto di Jean François De Troy per la peste di Marsiglia). Anche i cadaveri di Preti si sarebbero dovuti vedere dal basso. Proprio come aveva fatto il Domenichino, Giordano equipara nelle proporzioni divinità, santi e appestati. Scende tra i fossori. Si fa monatto tra i monatti per sentire l’odore del sangue; si fa medico della peste per incidere i bubboni, spiando il decorso delle pieghe. Anche i siparietti più perturbanti e dolenti, che nel Largo del Mercato di Spadaro erano stati allontanati, qui sono ripresi da vicino, come quadri isolati. Il bambino, che nel dipinto di Spadaro era steso sul cadavere, qui si abbarbica al seno della madre, richiamando la nostra compassione.
Cent’anni dopo Giambattista Tiepolo lo avrebbe tolto di peso da Giordano per chiudere il primo piano nella pala del Duomo di Este, «Santa Tecla implora Dio per la liberazione dalla pestilenza», consegnata nel dicembre del 1759 in ricordo dell’epidemia del 1630.
Nel commentare il dipinto del Tiepolo nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1945), Longhi poteva notare che «certi passi in primo piano avviano vagamente al pathos del Delacroix e del Géricault». E se ricordiamo che, nella bambina aggrappata al cadavere seminudo della madre, Tiepolo ha rimesso in carta un’invenzione di Giordano, e prima ancora di Spadaro, ecco che, dal ’600 all’800 francese, passando per il ’700 di Tiepolo, abbiamo ripercorsa la genealogia di un largo gesto barocco di pietà.
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