L’istinto sarebbe di dirlo sottovoce, perché per troppo tempo, e per troppe volte, la speranza di vedere realizzata la Grande Brera sognata nel 1972 dal futuro soprintendente Franco Russoli (1923-77) è andata delusa, sconfitta da ritardi, scontri, polemiche e da ogni sorta d’intoppo. Ma ora tutto è pronto e il 7 dicembre (sciopero minacciato dai dipendenti permettendo) la Grande Brera aprirà le sue porte ai milanesi e al pubblico italiano e internazionale che giunge sempre più numeroso (oltre 510mila le presenze in Pinacoteca nel 2024) e che ora troverà nuovi tesori.
Nel giorno di sant’Ambrogio, tradizionalmente dedicato all’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, quest’anno si tiene anche l’inaugurazione di Palazzo Citterio che, a pochi passi dal Palazzo storico, espone finalmente al meglio le magnifiche collezioni Jesi e Vitali di arte del Novecento (ma non solo), sinora sacrificate a causa della carenza di spazio, e regala a Brera due grandi aree per le esposizioni temporanee di arte attuale.
Ne parliamo con i tre protagonisti di questo evento: Angelo Crespi, direttore generale Pinacoteca di Brera e Biblioteca Nazionale Braidense (e, dal 25 ottobre, anche del Cenacolo Vinciano, oltre che del nascente Mad, Museo dell’Arte Digitale, già diretto da Ilaria Bonascossa ora a Palazzo Ducale a Genova); Mario Cucinella, architetto famoso nel mondo, insignito del Compasso d’Oro 2024 per il progetto del Museo d’Arte Fondazione Luigi Rovati di Milano, e Marina Gargiulo, storica dell’arte, responsabile delle collezioni del XX secolo della Pinacoteca di Brera.
Direttore Crespi, Palazzo Citterio apre i battenti e, 52 anni dopo l’acquisizione del palazzo, nasce la Grande Brera. Ci vuole guidare attraverso i suoi spazi?
Al piano nobile del palazzo trovano finalmente posto le collezioni del XX secolo ma, con il comitato scientifico (Giovanni Agosti, Stefania Gerevini, Fulvio Irace e Stefano Zuffi, Ndr) e con la curatrice Marina Gargiulo abbiamo scelto di aprire con capolavori dell’ultimo Ottocento, in continuità con le collezioni della Pinacoteca, che si arrestano alla metà di quel secolo. Tanto che l’ultima sala della Pinacoteca porta il numero 38/39 e la prima di Palazzo Citterio sarà la 40. Qui ci sono, tra le altre, due opere monumentali come «Fiumana» di Giuseppe Pellizza da Volpedo (il diretto antecedente del «Quarto Stato»), sinora nei depositi, e «Maternità» di Gaetano Previati, in comodato dal Banco Bpm e in arrivo dalla Gam di Milano, cui però restituiremo altrettanto importanti opere in deposito presso di noi. Da questa sala centrale, cerniera tra i due secoli, si sviluppano da un lato (verso via Brera) la Collezione Jesi, dall’altro, sul giardino, la Collezione Vitali. All’ingresso di ognuna, i ritratti di Emilio Jesi e di Lamberto Vitali, opera di Marino Marini. L’aspetto museologico era pressoché obbligato, poiché i donatori avevano disposto che le proprie collezioni fossero esposte unitariamente, cioè separate e distinte l’una dall’altra: accadrà così di trovare delle sovrapposizioni, essendoci per esempio capolavori di Morandi e di Modigliani in entrambe. La famiglia Vitali, poi, nella persona di Chiara, figlia del donatore, ha donato altri due capolavori assoluti di Morandi, che vanno ad aggiungersi al legato paterno. Mentre la donazione Jesi si è arricchita di un’opera di Bruno Cassinari, in seguito acquisita dal Ministero.
Dottoressa Gargiulo, con quale criterio avete ordinato le opere all’interno di ogni collezione?
Le opere Jesi sono disposte tenendo presente per quanto possibile l’organizzazione monografica, testimoniata da lettere e fotografie di quegli anni, realizzata dai collezionisti nel loro appartamento al piano superiore di Palazzo Citterio: un artista per ogni stanza. Abbiamo perciò conservato la suddivisione per autori, cercando di mantenere le scansioni tematico cronologiche irrinunciabili. La collezione Vitali, invece, va dal IV millennio a.C. a Morandi: abbiamo riunito tutti i Morandi (che ora, con l’ultima donazione, sono sette), accostando «L’enfant gras» di Modigliani. Tutta la sezione archeologica, fino al tardoantico, è esposta in vetrine su un tavolo disegnato da Cucinella. Il resto ha, per quanto possibile, una scansione tematica e visiva, secondo il gusto del collezionista.
Oltre alle due collezioni, Brera possiede altre opere del ’900.
Marina Gargiulo: Sì, sono nelle ultime due sale: nella prima sono esposti i 152 minuscoli autoritratti (8 per 10 centimetri) di Burri, Fontana, Carrà, Vedova, Pistoletto e altri maestri del primo e secondo ’900, della collezione di Cesare Zavattini. Con essi, per Palazzo Citterio si apre una possibile continuità di arricchimento delle collezioni verso la seconda metà del secolo. Qui si trovano anche le «Fantasie» di Mario Mafai, 22 delle quali donate da Aldo Bassetti e una (rimasta nella casa del primo collezionista, Giovanni Pirelli) dal figlio Francesco. L’altra è dedicata alle opere realizzate tra il 1928 e 1929 da Giorgio de Chirico, Alberto Savinio e Gino Severini per la casa parigina del grande mercante Léonce Rosenberg. Non dimentichiamo il salone d’ingresso, dove, oltre a «Fiumana» di Pellizza da Volpedo, abbiamo il nostro «Pastello Bianco» di Boldini, la «Maternità» di Previati, in comodato da Banco Bpm, e due prestiti dalla Gnam di Roma: «Mademoiselle Lanthelme» di Boldini e «La creazione della luce» di Previati.
Architetto Cucinella, com’è intervenuto su una realtà stratificata come Palazzo Citterio?
Abbiamo lavorato, e stiamo tuttora lavorando, alla rifunzionalizzazione dell’intero edificio. In tutti questi anni era mancato qualcuno che tenesse insieme i pezzi di un racconto: c’era una stratificazione di storie sovrapposte che abbiamo deciso di lasciare in evidenza, mettendole però a sistema. Abbiamo affrontato anche il tema degli ingressi: in futuro si entrerà sia dalla strada sia dal cortile, collegato all’Orto Botanico di Brera, valorizzando quello spazio meraviglioso anche con un bistrot affacciato sul giardino. Credo che i musei debbano perdere l’aura di sacralità e diventare sempre più luoghi d’incontro, come le nostre piazze. Per la corte interna abbiamo ideato un tempietto in legno, donato da Salone del Mobile, che ricorda quello dello «Sposalizio della Vergine» di Raffaello, in Pinacoteca. Un gesto di benvenuto per i visitatori.
L’ingresso su via Brera non era molto felice dopo il restauro del 2018. Come è intervenuto?
Cucinella: Qui, prestando attenzione all’accoglienza e all’accessibilità, abbiamo disegnato un grande mobile scultura, un oggetto organico di acciaio e legno, destinato al bookshop e al ticketing: trovo bello che in un palazzo storico ci siano incursioni di contemporaneità. Così accade anche con il grande ledwall su cui scorrono immagini di artisti digitali, perché Palazzo Citterio non è soltanto nelle sue collezioni storiche.
E il Piano nobile? Come ha risolto, qui, l’esposizione dei pezzi archeologici della collezione Vitali?
Cucinella: Al Piano nobile si respira un’atmosfera domestica: il patrimonio delle collezioni è eccezionale ma non dimentichiamo che quelle opere stavano nelle case dei collezionisti. Abbiamo armonizzato i colori, provveduto all’illuminazione e a tutto ciò che qualifica un’architettura. Qui, comunque, saranno le opere a vincere su tutto. Per la collezione archeologica abbiamo disegnato un tavolo: un oggetto importante, con due «lame» d’acciaio che s’intrecciano, sul quale, come se fosse un tavolo imbandito, sono posate piccole teche con i pezzi archeologici. A questo piano è previsto anche un piccolo luogo di consultazione dei libri.
Crespi: Aggiungo una nota tecnica: ora tutti i quadri sono protetti da climaframe (con un grande sforzo non solo economico ma anche dei nostri restauratori) e il clima e parametri igrometrici sono affidati a un ingegnere specializzato. La guardiania, anche grazie a una nuova Control Room, sarà assicurata 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno.
A Palazzo Citterio ci sono anche la Sala Stirling, ipogea, il piano terreno e il secondo piano. Che cosa vedremo all’inaugurazione?
Crespi: Nella Sala Stirling la mostra «site specific» di Mario Ceroli; al secondo piano, «La Grande Brera. Una comunità di arti e scienze», una mostra imponente curata da Luca Molinari: oltre 500 pezzi fra disegni, fotografie, progetti e plastici, con allestimento di Francesco Librizzi. Il piano terreno è destinato alle mostre d’arte digitale: la prima, in collaborazione con il Meet, presenta un’opera di Refik Anadol (Istanbul, 1985; vive e lavora a Los Angeles, Ndr), pioniere dell’arte digitale e dell’Intelligenza Artificiale. Altre seguiranno. La nostra programmazione espositiva prevede quattro mostre analogiche all’anno (due in Sala Stirling, due all’ultimo piano) e tre digitali. Della costellazione di Brera, del resto, farà parte anche il Mad, Museo dell’Arte Digitale che, pur avendo un proprio direttore (attualmente è Maria Paola Borgarino), è parte del Polo di Brera.
Di recente il Ministero, non senza qualche critica, ha assegnato alla Grande Brera il Cenacolo Vinciano, sinora parte del Polo museale della Lombardia.
Crespi: Si tratta dell’effetto della riforma del Ministero, entrata in vigore nello scorso maggio e completata con i relativi decreti in ottobre. È per me un onore e una grande responsabilità, trattandosi di una delle opere più conosciute (e fragili) al mondo, in un sito patrimonio dell’umanità. Ma la ratio (oltre che storica, essendo il Cenacolo già stato nell’alveo di Brera) è la creazione di un Polo museale che quota oltre un milione di visitatori e oltre dieci milioni di ricavi all’anno, paragonabile, seppure con numeri inferiori, a quello degli Uffizi o del Parco Archeologico del Colosseo. Mio primo obiettivo è dunque migliorare le performance, dal momento che i Musei autonomi hanno dimostrato di poter raggiungere risultati migliori delle passate gestioni, sia in termini di ricavi sia, soprattutto, in termini di standard conservativi.
I rinvii, negli anni, dell’inaugurazione di Palazzo Citterio, hanno indotto gli eredi Mattioli a depositare la loro collezione (notificata in blocco da Franco Russoli per Palazzo Citterio, come la Jesi e la Jucker) al Museo del Novecento di Milano, dove già c’è la Jucker, acquisita a suo tempo dal Comune. Peccato non poterle vedere insieme...
Crespi: A questo proposito stiamo preparando un accordo di collaborazione con il Comune di Milano, che riguarda proprio il Museo del Novecento che ha una collezione in continuità con la nostra, la Gam che è una sorella di Brera, il Castello Sforzesco e Palazzo Reale. Non solo, ma mettiamo a disposizione di queste istituzioni il nostro laboratorio di restauro pensando a progetti di conservazione comuni. E stringeremo accordi anche con il Museo del Risorgimento, per evidenti affinità e perché si trova nella stessa area della città. Una sorta di isola dei musei che si va completando con Palazzo Citterio.
Possiamo dire che i lavori, per Palazzo Citterio, sono terminati?
Crespi: Non ancora: avremo un anno almeno di ulteriori lavori, per una cifra importante che quota alcuni milioni di euro. Al piano meno uno verranno completati gli spazi per i laboratori dedicati ai bambini e alle scuole e il giardino troverà una sistemazione definitiva. Stiamo inoltre pensando a una futura copertura del cortile d’ingresso che migliorerà l’accoglienza del pubblico.
Ceroli primo a esporre: solo opere inedite
Erano i pini del suo giardino, appena fuori Roma: attaccati dalla Cocciniglia tartaruga, erano morti, e Mario Ceroli, 86 anni, un’energia e una creatività indomabili e una volontà mai spenta di sperimentare, ne ha ricavato un’opera d’incredibile potenza visiva e simbolica, «una Stonehenge lignea», come la definisce Cesare Biasini Selvaggi, il curatore della duplice mostra che dal 7 dicembre fino al prossimo marzo, per l’inaugurazione della «Grande Brera», lo vede protagonista a Milano in Palazzo Citterio (e poi, in forma più ampia, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma), nell’esordio espositivo dell’accordo di reciproca valorizzazione dei propri patrimoni appena siglato dai due musei, con il supporto di Ifis Art di Banca Ifis.
Se a Roma questi suoi lavori saranno intercalati da opere dei decenni passati, scelte da Biasini Selvaggi fra le più incisive del suo lungo percorso («meglio se poco note: tenevo a mostrare un Ceroli totale», chiosa), nella Sala Stirling di Palazzo Citterio, uno spazio ipogeo suggestivo e sfidante, il progetto è più «rischioso». Qui sono esposti infatti non i lavori più noti, ma solo opere inedite, realizzate quest’anno per l’occasione, poste intorno alla monumentale installazione, inedita anch’essa e site specific, realizzata con una quarantina di tronchi dei pini uccisi dal parassita. Un tempio della natura da percorrere e attraversare, che l’artista ha intitolato «Venezia», perché «la città lagunare, spiega Biasini Selvaggi, lo accoglie appena ventottenne e partito da zero dall’entroterra abruzzese, per esporre alla Biennale del 1966, dove vince con la “Cassa Sistina” (oggi al Centre Pompidou di Parigi) il Premio Gollin, che gli darà la fama e la precoce affermazione internazionale. Ma “Venezia” è anche una meditazione sulla bellezza, sull’unicità della Serenissima e, soprattutto, sull’incredibile ingegneria alla base di questa città sull’acqua, esito di quell’alleanza stretta fra uomo e natura che lui pone da sempre alla radice del suo lavoro. Ceroli è stato antesignano di quell’intersezione tra arte, ecologia, riutilizzo dei materiali, che ha adottato ben prima che s’imponesse».
Allo stesso modo, Ceroli ha anticipato sensibilità proprie dell’Arte Povera, ma non è mai stato un poverista; se mai, agli esordi è stato «povero», scegliendo i materiali che si poteva permettere: «Ha attraversato un momento storico irripetibile, continua Biasini Selvaggi, ma non è mai appartenuto a nessuna delle grandi “etichette” del dopoguerra. La sua palestra della mente è stata la galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, esperienza d’avanguardia culminata con il “Teatro delle Mostre” nel 1968. Il suo percorso è stato l’attraversamento nomadico di una figura solitaria: una scelta voluta, di cui ha pagato il prezzo nella sua vita». «La mia vita» è anche il titolo di un’altra installazione recentissima: «È formata, spiega il curatore, da strutture di legno alte oltre quattro metri in cui Ceroli ripercorre simbolicamente la sua esistenza, ma senza alcuna nostalgia del passato, perché semmai la sua è una “nostalgia del futuro”», di ciò che ancora sogna di fare. Non a caso nel suo studio di Roma si legge l’iscrizione «La forza di sognare». E fra i suoi sogni da realizzare c’è anche quello di aprire questo suo magico spazio ai giovani artisti e alle persone fragili, «per allearsi ancora una volta con l’imprevisto».
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