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Arte lenta e nuovi scenari. Nel 2024 il Basel Social Club ha invitato i galleristi a esporre e vendere opere (come le sculture di gufi di Julia Scher della foto) nella campagna svizzera

Foto © Gina Folly

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Arte lenta e nuovi scenari. Nel 2024 il Basel Social Club ha invitato i galleristi a esporre e vendere opere (come le sculture di gufi di Julia Scher della foto) nella campagna svizzera

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La grande frenata: perché musei e gallerie nel mondo organizzano meno mostre

Le esposizioni durano più a lungo, gli artisti riducono il numero di opere e i collezionisti sono più esigenti: tutti contribuiscono al cambiamento

Per il mondo dell'arte è forse iniziata l’era della consapevolezza? Dopo un anno difficile, in cui gallerie internazionali, case d’asta e musei sono stati costretti a ridimensionare in misura allarmante la loro programmazione e a licenziare personale, sta emergendo un approccio più lento e ponderato alle attività: mostre più lunghe e approfondite ed eventi su misura, che puntano a creare connessioni autentiche anziché spettacoli appariscenti. Anche gli artisti stanno dicendo no a programmi di produzione massacranti, mentre sia i mercanti sia i collezionisti stanno diventando più esigenti in merito alle fiere d’arte a cui partecipano ogni anno. Questo grande rallentamento era atteso da tempo ed è stato segnalato per la prima volta da «The Art Newspaper» l’estate scorsa in relazione ai musei statunitensi, ma il fenomeno si sta ora facendo sentire in tutto il mondo, in tutti gli ambiti dell’industria artistica.

«I tempi ci chiedono di essere diversi, di lavorare in modi diversi», osserva Leonie Bell, direttrice del V&A Dundee, inaugurato nel 2018 quando il mondo era «un posto diverso». All'epoca l’aspettativa era che il museo avrebbe ospitato due o tre grandi mostre all’anno, ma nel 2024 Bell ha ridotto quel numero a una sola, grande mostra della durata di nove mesi. Un rapporto inviato l’anno scorso al Governo scozzese dal V&A Dundee segnalava «un ambiente operativo instabile» che aveva costretto il museo a blindare la sua programmazione futura e il personale riducendo il numero di mostre. Per Bell  però il nuovo modello è un passo positivo. «Non userei l’espressione taglio dei costi, dice, sottolineando che nell'istituzione non ci sono stati licenziamenti. Abbiamo ristrutturato per essere in profonda sintonia con il contesto in cui ora lavoriamo». Accanto alla galleria principale, Bell ha creato un secondo spazio per mostre più brevi e complementari. «Il programma è molto più dinamico e abbiamo aumentato di molto l’offerta gratuita», spiega, aggiungendo che il nuovo programma di produzione ha un impatto ambientale molto inferiore.

Operando in una piccola città con una popolazione di 150mila abitanti, Bell è consapevole di poter coinvolgere più volte gli abitanti di Dundee, oltre ad attrarre i visitatori dei musei d'oltreoceano con visite occasionali. «È una questione di ritmo e di come imposti le stagioni, osserva. La tv è ottima; anche il cinema sta vivendo una rinascita. Quindi, quello che facciamo deve essere così bello da indurre la gente ad alzarsi dal divano e da mollare il telefonino per venire a vederlo».

 

Mostre a ritmo, stagioni in evoluzione

Sono stati sia il pubblico sia il personale a motivare Eric Crosby a ridurre gradualmente il numero di mostre al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, passando dalle dieci all'anno di prima della pandemia alle cinque mostre nel 2024. «Erano troppe. Per il personale del museo ormai erano il solito tran tran e anche il nostro pubblico sembrava non poterne assorbire altre», rimarca Crosby, che è stato curatore del Carnegie Museum tra il 2015 e il 2020 prima di essere nominato direttore. Crosby riconosce che i vincoli finanziari sono stati un elemento di cui si è dovuto tener conto nel ripensare la programmazione, ma a suo avviso in gioco c’è  qualcosa di più fondamentale. «A che cosa serve un museo? chiede. L’arte è un'esperienza lenta, voluta. Sentiamo le opere d’arte in molteplici registri emotivi, a volte tutti insieme. E questo richiede tempo per essere elaborato. Allora perché per i nostri visitatori dovremmo creare un'esperienza museale veloce?».

Nel 2017 i ricercatori hanno scoperto che i visitatori dell’Art Institute di Chicago hanno trascorso in media 28,63 secondi a guardare le singole opere d'arte, un lasso di tempo apparentemente breve; per Crosby però è una questione di prospettiva: «Non ho aspettative sul tempo che una persona trascorre con un'opera, sostiene. Stiamo pensando piuttosto a ciò che è permesso, a ciò che si offre, a ciò che nel museo è incoraggiato». Rientra in questo tentativo di creare un’esperienza più ponderata per i visitatori la rivisitazione, in termini espositivi, delle 100mila opere che compongono la collezione del Carnegie. Finora i lavori erano presentati in ordine cronologico, ma nei prossimi due anni le gallerie chiuderanno e riapriranno periodicamente con nuove installazioni. «Stiamo elaborando nuove modalità di esposizione e coinvolgimento, e nuove strade per la critica dell'arte e delle narrazioni storiche, annuncia Crosby. Non potremmo perseguire questo obiettivo se fossimo in quel turbinio di dieci mostre speciali all’anno». Il museo, che dal 1896 ospita la Carnegie International, sta ripensando anche il modello biennale. Inizialmente tenuta ogni anno, la mostra è riapparsa come triennale nel 1982 e da allora si tiene ogni tre o quattro anni. «All’interno del formato biennale c’è un’agitazione simile che crea una sorta di urgenza, riflette Crosby. Sono curioso di sapere che cosa succede se riusciamo a resettare alcune di queste aspettative e a pensare a come sostenere al meglio gli artisti nel contesto di quel lavoro».

Per le istituzioni senza collezioni funzionare a un ritmo più lento è probabilmente più impegnativo. A Berlino i finanziamenti per l'arte e la cultura quest'anno sono stati ridotti di circa il 12%, a 130 milioni di euro. Istituzioni come il Gropius Bau sono riuscite a rallentare l‘avvicendarsi di mostre, ma Emma Enderby, direttrice del KW Institute for Contemporary Art, che non possiede una collezione propria, si trova di fronte a una decisione difficile. L’anno espositivo, per i KW, si compone di solito di tre stagioni, ognuna con tre mostre. «La domanda è: l’anno prossimo potremo fare tre stagioni o potremo ridurre il numero di mostre per stagione? In ogni caso, ci sarà un programma espositivo ridotto», si chiede Enderby, aggiungendo che il taglio di un’intera stagione potrebbe tradursi per l’istituzione in una perdita di 30mila visitatori all'anno.

Secondo Adrian Ellis, direttore di Aea Consulting e presidente della Global Cultural Districts Network, il motivo principale alla base della tendenza a fare meno mostre è la «riduzione dei costi diretti e del personale». Ma, sottolinea Ellis, nonostante «il buon senso dica che il numero di mostre organizzate da un museo influisca negativamente sulla partecipazione e sulla spesa accessoria dei visitatori», allestirne di meno avrà un impatto relativamente modesto sul bilancio operativo complessivo di un museo, perché «al di là dei “blockbuster”, le rassegne di grande successo, le mostre che generano un profitto sono più l'eccezione che la regola».

Il calo del numero di visitatori è però coinciso con licenziamenti di massa. Il mese scorso la Royal Academy di Londra, istituzione che ha faticato a tornare ai numeri di visitatori pre pandemia, ha annunciato il possibile taglio di 60 posti di lavoro; a New York il Solomon R. Guggenheim Museum ha licenziato 20 dipendenti e 47 il Brooklyn Museum. Tutte e tre le istituzioni parlano di deficit di bilancio a fronte di costi crescenti e calo di presenze.

Oltre a un calo di presenze, la frenata potrebbe anche portare a una riduzione delle membership, una fonte chiave di entrate per un museo. Una socia della Tate che paga 132 sterline (circa 156 euro) per la quota annuale dichiara che le mostre troppo lunghe l’hanno portata a prendere in considerazione l’idea di cancellare l'abbonamento: «Le mostre [della Tate] durano talmente tanto che non sono più sicura che il rapporto qualità-prezzo sia così buono. L'anno scorso alla fine ho visto la stessa mostra [Zanele Muholi] tre volte perché è durata quasi sette mesi».

 

 

Cambiano le abitudini dei collezionisti

Anche il settore commerciale sta adottando la filosofia del «less is more», meno è meglio, in risposta sia a un mercato depresso sia al cambiamento delle abitudini dei collezionisti. Le case d'asta sono state particolarmente colpite dalla recessione, in particolare dall’assenza sul mercato di opere «trofeo». Alla fine del 2024, a causa del crollo delle vendite Sotheby's ha licenziato più di 100 dipendenti. Nel tentativo di adattarsi ai tempi, si è assistito a un netto spostamento verso le aste online, alle quali i collezionisti possono accedere comodamente da casa, a discapito  delle costose vendite in sala. L'anno scorso Bonhams ha venduto online il doppio degli articoli rispetto alle aste dal vivo; l’amministratrice delegata della casa d'aste nel Regno Unito, India Phillips, rimarca tuttavia quanto continui a essere cruciale «l’elemento esperienziale» del vedere e acquistare arte di persona.

Nel periodo precedente la pandemia, quando il numero di fiere d'arte globali ha raggiunto il picco di 408 (nel 2019), «Fair-tigue», la fatica da fiere, è diventata una parola d'ordine. Dopo un brusco calo nel 2020, la cifra è lentamente risalita, toccando nel 2024 il numero di  377. I collezionisti stanno però diventando più esigenti in materia di  alle fiere d'arte e di altri eventi dal vivo. Secondo un recente sondaggio tra i Vip di Art Basel, la partecipazione è scesa del 40%, passando da un massimo di 89 prima della pandemia a una media, nel 2024, di circa 51 appuntamenti all'anno. Alcuni organizzatori di fiere e di altri eventi stanno cercando di reinventare la ruota. L'anno scorso il Basel Social Club ha invitato i galleristi a esporre (e vendere) su 50 ettari di terreno agricolo nella campagna svizzera, mentre stanno diventando sempre più popolari le «offerte boutique», come le fiere Esther a New York e Place des Vosges a Parigi.

Poiché le fiere d'arte diventano sempre più costose e il loro impatto sull'ambiente è una preoccupazione crescente, i mercanti stanno anche scegliendo di concentrarsi su eventi locali e su quelli con i migliori rendimenti. Negli anni precedenti la pandemia, ben il 46% delle vendite annuali delle gallerie veniva realizzato alle fiere, una  quota che, stando all’ultimo Art Basel/UBS Art Market Report, nel 2023 è scesa al 29%.

Alcuni mercanti stanno evitando del tutto le fiere d'arte. Dopo gli incendi mortali che a gennaio  hanno devastato parti di Los Angeles, Various Small Fires ha deciso che quest’anno non parteciperà a nessuna fiera. La fondatrice della galleria, Esther Kim Varet, afferma che questi eventi non daranno la «soluzione finanziaria rapida» che la gente auspica, e per di più non sono sostenibili per il clima. «Dobbiamo tornare a essere locali, dichiara Kim Varet, pensare agli spazi che già abbiamo per ospitare mostre davvero importanti, non a un pop-up di quattro o cinque giorni, ma in quattro, cinque, sei settimane. Questo è l'investimento che gli artisti vogliono da noi per esporre in modo adeguato e ponderato il loro lavoro». (Il cambiamento di priorità della galleria potrebbe anche essere in parte dovuto alla candidatura di Kim Varet al Congresso degli Stati Uniti).

La gallerista sta impiegando i circa 100mila dollari che avrebbe speso per esporre a Frieze Los Angeles per affittare per un periodo di due anni una galleria nella contea di Orange, spazio che utilizzerà per dare una piattaforma agli artisti della California meridionale.

 

La galleria a conduzione familiare

Nella sede di Somerset di Hauser & Wirth, la mega galleria globale sembra voler tornare a un modo di gestione più familiare. Alla fine dell'estate scorsa, la galleria ha ridotto gli orari di apertura al pubblico da sei giorni alla settimana a quattro, a favore di un'organizzazione più personalizzata, orientata alle visite di scuole, università e mecenati. Di conseguenza, le mostre sono diventate più lunghe e, forse, più ambiziose. La mostra di Phyllida Barlow, curata dall'ex direttrice della Tate Modern Frances Morris, è durata sette mesi.

Per Jeremy Epstein, che nel 2024 nella sua galleria londinese Edel Assanti ha gradualmente ridotto il numero di mostre da sei all'anno a quattro, « l'idea che tutte le gallerie debbano seguire il percorso stabilito dai mercanti che hanno dettato il passo nella generazione precedente è ormai superata». Per quanto riguarda i collezionisti, Epstein ritiene che ora siano più propensi a viaggiare per opportunità uniche: residenze d'artista e altri incontri irripetibili. «Rispetto a una volta la gente sembra avere meno interesse per il glamour del mondo dell'arte; l’ossessione di partecipare all'evento sociale più esclusivo sembra ormai piuttosto antiquata, afferma. Sempre più spesso vediamo che molti grandi collezionisti evitano queste esperienze a favore di qualcosa di più autentico: un momento genuino o un incontro intimo con un artista».

La domanda ora per i mercanti è come creare uno spazio che possa competere con la pressione del tempo che guida il successo commerciale delle fiere d'arte. «La risposta per noi, conclude Epstein, è stata di andare più a fondo e di lavorare di più per produrre mostre singolari e inoppugnabili».

Un approccio innegabilmente attraente anche per gli artisti. Quando, nel 2023, la galleria londinese Simon Lee ha chiuso, proprio quando stava per tenere una sua mostra personale, Alexis Soul-Gray dice di esserne rimasta molto scossa; ora però si è adattata a un ritmo di lavoro più lento e sostenibile. Dopo un periodo finanziariamente difficile, l'artista britannica è stata scelta dalla galleria Bo Lee and Workman, con sede nel Somerset, e ora prevede di realizzare dieci dipinti «di successo» all’anno. Le abitudini del mondo dell’arte comunque sono dure a morire e Soul-Gray ne è consapevole: «A volte mi chiedo quale sia la pressione nel sapere che c’è una tale richiesta che forse mi verrà chiesto di fare 20 dipinti all’anno. I miei dipinti richiedono molto tempo. Attraversano viaggi e processi di cambiamento, proprio come me. Quindi se qualcuno mi chiedesse di partecipare a una mostra collettiva in una grande galleria tra quattro settimane, dovrei davvero pensarci bene».

Per alcuni, quei giorni senza soste potrebbero essere finiti. Come dice Epstein: «Viviamo finalmente in un'epoca in cui il fatto che questo modello possa essere definito da una varietà di approcci è una cosa positiva. Non è più un sistema gerarchico unico per tutti».

Anny Shaw, 11 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

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