Quanto dura, nel tempo, l’influenza esercitata da un artista sui suoi colleghi, coevi o posteri che siano? A più di un secolo dall’irruzione sulla scena di Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 18 luglio 1887-Neuilly-sur-Seine, 2 ottobre 1968) sono tuttora rarissimi gli artisti che dentro di sé non conservino anche una minima traccia del suo Dna. Oggi non è decisamente possibile, se si fa lo stesso mestiere, ignorare l’uomo che dopo la sua morte venne salutato da un trafiletto di «Le Monde» (3 ottobre 1968) come colui che aveva «contribuito a distruggere un intero sistema di valori legati all’idea della produzione artistica e alla figura dell’artista». Sono centinaia gli artisti debitori di Duchamp, peraltro già in forte credito ai tempi dell’«Erased de Kooning Drawing» (1953) (eccola, una negazione come espressione artistica) di Robert Rauschenberg. Molti suoi colleghi utilizzarono la parola come mezzo espressivo: tra gli altri, Bruce Nauman con i suoi giochi linguistici (il calembour era una delle arti praticate da M.D.) e Jenny Holzer con i suoi «truismi», le «verità ovvie» trascritte in epigrafi o nella scorrevole luminosità del led. Ecco un esempio di quella compenetrazione degli opposti che fu l’ossessione di M.D.: nel caso di Holzer, la banalità elevata al rango di lapidaria verità, ma soprattutto innestata nella complessità del linguaggio dell’arte contemporanea.
Andy Warhol (la sua Marilyn-Gorgone è la versione tragica della Monna Lisa baffuta), Jim Dine, Yves Klein, Arman, Tinguely, Spoerri, Fillou, Broodthaers, Fluxus, Robert Morris, persino la Optical art (derivante dai «Rotorilievi» duchampiani) sono tra gli immediati discendenti di Duchamp. Oltre a Beuys, Kosuth (per l’uso della tautologia), Art & Language e Ben Vautier. In realtà, quasi tutto ciò che è venuto dopo l’ultima neoavanguardia di matrice romantica, l’Espressionismo astratto, ricade nel grande maelstrom duchampiano. Se ci voltassimo indietro, infatti, scopriremmo che la «poetica della negazione» teorizzata da Theodor Adorno non era traducibile soltanto come negazione e dunque impossibilità della poesia, ma come negazione dell’ingenuità o della licenza offerta dal «non sapere».
Tra le poche armi rimaste all’artista che vuole essere tale in un’epoca in cui ogni cosa, anche l’arte, è stata fagocitata dal consumo, dallo sfruttamento, dalla retorica della tecnologia e dalla spensierata alienazione nell’extramondo dell’immaterialità, resterebbe l’ironia, la Musa così finemente evocata da M.D. La riconobbe, ad esempio, in uno degli stravaganti personaggi che incontrò nella sua vita di «anartista», Gaston de Pawlowski (Joigny, 1874-Parigi, 1933), giornalista, saggista, scrittore, teorico della «quarta dimensione» e che, secondo Jean Clair (in Marcel Duchamp, il grande illusionista) ebbe una parte di non poco conto nel concepimento del «Grande Vetro», una delle opere più complesse e studiate di Duchamp. È quel Pawlowski che nel suo racconto di fantascienza Voyage au Pays de la Quatrième Dimension (non esente dall’arguto stupore visionario di Voltaire) include il paragrafo «Le Belle Arti sono ammesse solo come divertissement» e che ritiene lo humour fondamentale in quanto «anarchia morale che aggredisce le “cose serie”», «principio di contraddizione» che ci permette di capire il mondo, «contro l’assurda vanità delle “certezze scientifiche”». Lo scettico Duchamp, che diffidava dell’arroganza positivista e della retorica della modernità e delle tecnologie di cui si nutrivano alcune avanguardie di primo ’900, adottò l’ironia come antidoto. Proprio su questo territorio rivelano la loro debolezza molti possibili neoduchampiani, come i «relazionali» e/o performativi Rirkrit Tiravanija, Carsten Höller, Tino Sehgal e altri (tanti) ancora. Sono gravati dalla tentazione del «messaggio», dello slogan, dell’«engagement», mescolata a presunzioni antropologiche e a frustrate ambizioni sociologiche. Meglio, allora, l’ironia di Luca Maria Patella o il Concettualismo simbolista di Vettor Pisani.
«L’ironia costituiva un mezzo molto importante per introdurre l’umorismo nel mondo molto serioso di quell’epoca», conferma Duchamp in un’intervista trasmessa dalla Bbc il 13 novembre 1959. Il tema dell’ironia entra in quella conversazione nel momento in cui l’artista risponde ad alcune domande sulle sue opere oggi più popolari, i readymade: lo spalaneve acquistato in un negozio di ferramenta di New York, una ruota di bicicletta rotante su un supporto montato su uno sgabello, uno scolabottiglie e naturalmente «Fontana», l’orinatoio rovesciato e proposto (a firma di un allora misterioso R. Mutt e rifiutato) in un’imponente mostra collettiva al Grand Central Palace sulla Lexington Avenue e organizzata dall’Associazione degli artisti indipendenti, della quale lo stesso Duchamp era cofondatore.
I readymade appaiono negli anni in cui l’Europa è sconvolta dalla Prima guerra mondiale, ma anche nella fase in cui le avanguardie artistiche o si accademizzano (il Cubismo) o si erigono a portatrici (e interpreti, come accade in Russia) di rivoluzioni in grado di mutare radicalmente la vita quotidiana. Come poteva riconoscersi nell’accademismo e nella retorica ideologica, il laico Duchamp, che aveva preso le distanze dal Cubismo e dal Futurismo parafrasandone il linguaggio e insieme sovvertendolo con «Il nudo che scende le scale n. 2», l’opera che più di tutte fece scalpore all’Armory Show del 1913 (la mostra che rivelò al pubblico americano le avanguardie europee)? Ma come sempre, anche nel caso dei readymade, il loro autore si conferma un genio della dissimulazione. Non era solo ironia. «Ad ogni secolo spunta una nuova definizione dell’arte, dichiara nell’intervista citata. Ma non ce n’è una valida per tutti i secoli. Il readymade può essere visto come una specie di ironia, oppure un tentativo di dimostrare la futilità di tentare di definire l’arte. Non l’ho nemmeno fatto io con le mie mani, visto che sappiamo che arte significa fare, fare con le mani, fare a mano. È il prodotto di una fabbrica. Ma proprio perché non è fatto a mano, è un modo per negare la possibilità di definire l’arte. Non si definisce l’elettricità: vedi l’elettricità come esito finale, ma non la definisci. Non puoi dire quello che è, ma sai quello che fa. Lo stesso discorso vale per l’arte: sai quello che fa l’arte, ma non sai quello che è».
Il problema dell’arte, dunque, resta centrale nel pensiero di colui che troppo frettolosamente è stato definito il suo distruttore. Negandole la possibilità di essere definita, al contrario, Duchamp libera l’arte dalla prigione della «definizione». Bernard Marcadé, nella sua biografia Marcel Duchamp. L’arte a credito pubblicata in Italia da Johan & Levi, sottolinea che quando l’artista sottrae un oggetto al suo contesto abituale, «sradica al tempo stesso la questione dell’arte come indissolubilmente legata alla scelta estetica. Ormai si tratta di una scelta mentale, non più estetica». «La mia, dichiara Duchamp, non era solo una sfida, perché c’è anche un aspetto filosofico. La de-deificazione dell’artista. L’abbassamento del suo status nella società. (…) Volevo liberarmi dell’istinto del gregge negli artisti; individualizzare, singolarizzare, è ciò che ogni artista dovrebbe fare invece di andare verso la produzione di massa come facciamo oggi». C’è dell’altro. La de-deificazione dell’artista include la negazione della sua funzione di demiurgo, colui che sceglie (in questo caso un oggetto).
Quando, nel 1963, Duchamp viene intervistato da un altro critico, Francis Roberts, al Pasadena Art Museum of Arts (dove si svolse la sua prima importante retrospettiva) alla domanda «Come si sceglie un readymade?», risponde: «È lui che sceglie te, per così dire. Se entrasse in gioco la tua scelta, allora ci sarebbe di mezzo il gusto, il cattivo gusto, il buon gusto, il gusto non interessante. Il gusto è nemico dell’arte. L’idea era di trovare un oggetto che non avesse alcuna attrattiva dal punto di vista estetico. Volevo cambiare lo status dell’artista o almeno cambiare le norme utilizzate per definire un artista. I greci e i secoli XVI, XVII e XVIII lo consideravano un lavoratore, un artigiano. (…) L’idea dell’artista come superuomo è relativamente recente. (…) Arte, etimologicamente parlando, significa “fare”. Tutti fanno, non solo gli artisti».
È alla luce di queste dichiarazioni che si comprende quanta parte del pensiero duchampiano abbia influenzato due suoi colleghi più giovani: Joseph Beuys e la sua convinzione che ogni uomo sia un artista e Pistoletto che negli anni Sessanta, con gli «Oggetti in meno», opere concepite secondo stili e caratteristiche diverse, mettono in crisi il mito della riconoscibilità e dell’autografia.
Duchamp è passato alla storia anche per il suo ruolo di ponte tra Europa e Stati Uniti, nonché diffusore del virus dadaista. A New York sbarcò per la prima volta nel 1915. Fuggiva non tanto dalla guerra e dalla «spaventosa solitudine» vissuta nell’ambiente artistico parigino, dove già nel 1904 aveva raggiunto i fratelli (anch’essi artisti) Gaston (in arte Jacques Villon), Raymond (Raymond Duchamp-Villon) e la sorella pittrice Suzanne. A Manhattan ritrovò altri colleghi esuli, come l’amico Francis Picabia, Albert Gleizes, Jean Crotti (che sposerà Suzanne) e andò a vivere nella grande casa di Louise e Walter Arensberg, due collezionisti destinati a diventare i suoi maggiori sostenitori: saranno gli Arensberg, anni dopo, a donare al Philadelphia Museum of Art un eccezionale corpus di opere di Duchamp. Da subito strinse amicizia con Man Ray. Da allora, sino agli anni Cinquanta, sarà un periodico viaggio di andata e ritorno da New York a Parigi.
Dandy, flâneur, tombeur de femme, il «bel normanno» ai piedi del quale cascavano donne, uomini, galleristi, collezionisti, critici e colleghi, è stato artista, bibliotecario, organizzatore e geniale allestitore di mostre. Fu anche insegnante privato di francese (attività che lo facilitò nel suo percorso tra i salotti newyorkesi) e scacchista (professione che esercitò quasi a tempo pieno e con un certo successo negli anni dal 1923 al 1934). Non ebbe inibizioni quando si rese conto di poter commercializzare le sue opere producendone multipli. In questa attività, negli anni Sessanta, lo affiancò Arturo Schwarz, gallerista, collezionista, storico dell’arte e studioso dei movimenti Dada e surrealista. Tra le 480 opere dada e surrealiste che quest’ultimo ha donato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che le espose nel 1997, non mancano ovviamente quelle di Duchamp, incluso il suo primo acquisto, la «Scatola verde» del 1943, che contiene una serie di studi e note sulla celebre «Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche» (il «Grande Vetro»). Alla Galleria Nazionale Schwarz (scomparso nel 2021) donò anche i 14 readymade realizzati come «seconda tiratura» con l’autorizzazione dell’artista (cui avrebbe versato 10 milioni di lire) nel 1964, l’anno in cui gli dedicò una storica personale nella sua galleria milanese e, nel giugno 1965, in quelli che erano gli uffici della Gavina s.p.a. in via Condotti a Roma.
Alcune di quelle repliche sono apparse sul mercato. È il caso, tra le altre, di «Fountain». Una delle otto «artist proof» fatte realizzare da Schwarz nel 1964 è stata venduta il 13 maggio 2002 da Philips, de Pury & Luxemburg a New York per 1,185 milioni di dollari contro una stima di 1,5-2,5 milioni; nella stessa occasione un esemplare della medesima tiratura di «Ruota di bicicletta» ottenne 1,762 milioni di dollari (stima 2-3 milioni); invenduto, invece, lo «Scolabottiglie» (stima 800mila-1,2 milioni di dollari). Il record, comunque, sono gli 8,9 milioni di euro (stima 1-1,5 milioni) pagati per «Belle haleine - eau de voilette» nell’edizione originale del 1921, appartenuta alla collezione Yves Saint Laurent e Pierre Bergé e venduta da Christie’s Parigi il 23 febbraio 2009. È un readymade concepito in collaborazione con Man Ray, un flacone di profumo prodotto dalla Rigaud di Parigi, con un’etichetta modificata. La donna che vi appare è in realtà lo stesso Duchamp nelle vesti di Rose Sélavie (pseudonimo quanto mai onomatopeico: «Rose, c’est la vie») il suo alter ego femminile (con grande anticipo su quanto fa oggi Grayson Perry). Come al solito dietro allo «scherzo» del readymade si celano rimandi, calembour, e riferimenti in questo caso erotici, mitologici, epici e classici: insieme ad haleine-Elena appare Paris, il suo spasimante Paride. Il labirinto di significati e rimandi di un’opera come quella, che ha in sé un lieve aroma di Francesco Vezzoli, rende molto spesso fuori luogo e fuori tempo l’affanno con cui gli esegeti o presunti tali hanno cercato di interpretare con ulteriori significati alcune opere di Duchamp.
Tre di esse sono diventate ineludibili punti di riferimento nella vicenda duchampiana. Le unisce un paradosso: tutte e tre, nel titolo e/o nel soggetto, hanno a che fare con il nudo, il genere accademico per antonomasia, ed è un fatto piuttosto indicativo essendo il loro autore l’antiaccademico per antonomasia.
«Nu descendent une escalier» è una sorta di figura cubofuturista però eretica rispetto al Cubismo e al Futurismo. Quello che c’è su quella tela non è una creatura reale, di quelle che Picasso, Braque e seguaci scomponevano per mostrarcele come esse sono e non come appaiono alla percezione ottica dell’osservatore. E mentre a Parigi i cubisti sintetici cominciavano a incollare sulle tele frammenti «trouvé» che portassero nella pittura la vita reale, il manichino di Duchamp vive in un mondo che non ha nulla a che fare con la realtà; è il mondo in cui la pittura è scienza, speculazione intellettuale. «Ho voluto creare un’immagine statica del movimento. Il movimento è un’astrazione, una deduzione articolata all’interno del quadro senza essere tenuti a sapere se un personaggio reale scende o non scende una scala altrettanto reale. In fondo, il movimento è l’occhio dello spettatore che lo incorpora nel quadro». Alla faccia della retorica della velocità futurista, e della fobia marinettiana per il nudo in quanto, appunto, figura appartenente all’arte classica. E sebbene le cronofotografie di Marey e le fotografie in movimento di Muybridge fossero note a Duchamp, il colpo di coda quel quadro lo infligge nel momento in cui ci si ricorda che, in pittura o scultura, un nudo sta tradizionalmente fermo, è quasi sempre in posa (magari eroica), in piedi o disteso; quello di Duchamp è l’anti Olympia di Manet: «scende le scale».
Una sposa «messa a nudo dai suoi scapoli» è invece la primadonna del «Grande Vetro», l’opera mai portata a compimento, neppure dall’incidente che la colpì infrangendone il supporto, cui Duchamp lavorò a partire dal 1912 per oltre dieci anni. Nel già citato saggio, Jean Clair elencò alcune delle molte interpretazioni proposte per quell’enigmatico dipinto «schiacciato» tra due vetri. Jean Lebel parlò di «progetto di una macchina per amare», rappresentazione del mito dell’amore sterile pervasa di impotenza e onanismo («lo scapolo che macina da solo il suo cioccolato» ne sarebbe il più attivo praticante). Il meccanicismo vagamente minaccioso che caratterizza personaggi e accessori dell’opera rimanderebbe invece, per altri studiosi, a certe angosce kafkiane, alle torture inflitte nel suo racconto La colonia penale. I tempi, del resto, sarebbero stati maturi. Ci si avvicinava a grandi passi, dopo la carneficina della Prima guerra mondiale, ai campi di sterminio. E si assisteva alla nascita dell’«impero simultaneo del macchinismo e del mondo del terrore». Sono cose che si leggono nel saggio Les Machines célibataires di Michel Carrouges (1950). Jean Clair, infine, si dichiara assai diffidente nei confronti di interpretazioni alchemiche (di Arturo Schwarz e di Maurizio Calvesi, tra gli altri). Meglio, secondo lo storico dell’arte, riportare il «Grande Vetro», la sua feroce sposa, mantide aliena e meccanica, i suoi spasimanti frustrati, in parata come manichini, le eiaculazioni a vuoto e le perverse macchine per il cioccolato, a una speculazione formale, alimentata dalle letture di Pawlowski, «ai confini della fantascienza, della filosofia e della patafisica». Non sarà un caso, allora, se l’autore abbandonò la sua opera nel 1923, un periodo segnato da «un mutamento nel clima intellettuale. Non è più l’ora degli stupori ingenui o ironici di fronte alle meraviglie della scienza. (…) La bella stagione della letteratura fantascientifica si è chiusa». Lasciando da parte Jean Clair, si può sottolineare un aspetto formale: articolando le sue figure su uno spazio vuoto e trasparente, Duchamp risolse il problema dello sfondo, che muta a seconda di ciò che sta dietro l’opera, compreso il visitatore, visto che il lavoro è montato su un piedistallo e visibile fronte-retro.
La terza opera, «Etant donnés», venne rivelata, per volontà di Duchamp, solo dopo la sua morte. C’è un nudo, anche qui. Per vedere questo calco iperrealista di una donna con le gambe divaricate, una «Origine du monde» assai meno «retinica» (come diceva Duchamp) e molto più inquietante, sullo sfondo di un paesaggio arcadico munito di cascata, e trovarci di fronte la sua vagina, nella postura del coito o del parto, bisogna spiare da uno dei due fori ricavati in una vecchia porta chiusa. La donna regge una lampada a gas, inevitabilmente «fallica» secondo molte interpretazioni. È la sorella più giovane delle due figure femminili tedofore che illuminano, nelle opere di Picasso (forse il più perfetto contrario di Duchamp) l’una l’incedere di un Minotauro accecato e l’altra la devastazione di «Guernica». Ma questa non illumina: anzi, per disposizione dell’autore, in questa installazione ambientale (ma all’epoca non si sarebbe chiamata così), un fascio di luce «doit tomber verticalement, exactement, sur le con», cioè sulla vagina. La «cascata d’acqua» e «il gas illuminante» che completano il titolo di quest’ultimo enigma, e dunque la presenza degli elementi primari, hanno scatenato ulteriori letture alchemiche e allegoriche (si citano la Grande Dea, la Grande Madre, la vergine o la sposa come personificazioni della natura). Duchamp lavorò a questo peep-show, com’è stato definito, in segreto, in una stanza della sua casa di Neuilly, dove si ritirò sino alla morte, il 2 ottobre 1968, con la moglie Alexina (Teeny) Matisse nata Sattler, dal 1943. A rivederlo ora vengono in mente i «set» fotografici, di pari inquietudine, creati da Gregory Crewdson. E oggi nulla impedisce, visti i tempi che stiamo attraversando, di supporre che la ragazza sia morta. Mentre si sono già sprecate le invocazioni a Freud, tanto vale ricordare che nel calco, da tempo, Duchamp aveva già individuato un altro modo per scandagliare i meandri dell’erotismo e delle sue infinite proiezioni. Sempre, ovviamente, con il lieve sorriso del calembour, dell’ambiguità e della convivenza dei contrari, positivo e negativo: «Feuille de vigne femelle» (1950) è il calco di una vulva. Ciò che in natura è concavo, si fa convesso ricavandone un’impronta. La vagina, porta della vita verso l’esterno, è anche il varco, verso l’interno, del seme maschile. Tra le due fasi c’è il piacere della tattilità, del «modellare», dell’accogliere e del penetrare, come, appunto, nell’esecuzione di un calco. Calco, in francese, si dice «Moule»; «moule», nella stessa lingua, è uno dei termini utilizzati per indicare il sesso femminile.
«Che posto ha l’erotismo nella sua vita?», chiese Pierre Cabanne nella sua famosa, lunga conversazione con Duchamp a Neuilly, terminata nel 1966. E lui rispose: «Enorme. Visibile o evidente, o comunque sottinteso» («visible ou voyante, ou en tout case sous-jacente»). In questo contesto, è vero che il visitatore che spia dal buco della porta al Museum of Art di Philadelphia è mostrato in flagrante (ecco ritornare lo humour), nel suo ruolo di voyeur (come gli scapoli del «Grande Vetro); ma anche il vedere, in fondo, è un atto erotico. Dipende da come lo si fa, sembra dire Duchamp.
Nel 2007 tale Pierre Pinoncelli prese a martellate l’esemplare di «Fontaine» conservato al Centre Pompidou. Si lesse e si scrisse, allora, che avendo subito lo stesso destino della «Ronda di notte» di Rembrandt o della «Pietà» di Michelangelo, anche quell’orinatoio rovesciato era diventato un’opera d’arte a tutti gli effetti, un’icona così ingombrante da creare, una volta vandalizzata, un caso mediatico. Chissà se e quanto quel fatto influenzò la giuria di 500 addetti ai lavori che, l’anno successivo, con il finanziamento della Gordon’s, l’azienda di alcolici sponsor del Turner Prize, definì «Fountain» l’opera più influente del XX secolo. La replica in bronzo creata dell’appropriazionista Sherrie Levine e il wc d’oro di Cattelan sono due tra gli omaggi diretti o indiretti a quell’opera, la cui forma è stata identificata anche come vagina «nel bagno degli uomini». L’attentato ha dunque sancito il fallimento di Duchamp, iconoclasta fabbricatore malgré lui di icone, e per questo vittima di un vandalo iconoclasta? O in fondo, non era che la conferma di quanto, nella storia dell’«anartista», gli opposti e le ipotesi contrapposte continuino a coesistere? Si prenda la «Boîte en valise» (1936-41), il museo portatile costituito dalla riproduzione di tutte le sue opere. Nell’interpretazione comune, quando l’autore terminò di «fare il bagaglio», si trattò di una sorta di suo addio alle arti. Molti, tuttavia, dimenticano ancora oggi che l’uomo con la valigia è colui che parte, ma altrettante volte è colui che arriva. Sta a noi dargli l’addio, l’arrivederci o il benvenuto.
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