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Marco Brignone e Gian Enzo Sperone (a destra) nello studio di Peter Halley

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Marco Brignone e Gian Enzo Sperone (a destra) nello studio di Peter Halley

Marco Brignone dalla banca all’arte, dall’arte al luppolo

A Gian Enzo Sperone, amico personale di antica data, che aveva condiviso la sua passione vivace e intensa per l’arte, abbiamo chiesto un ricordo che ci ha dettato poche ore dopo la scomparsa dell’imprenditore

Gian Enzo Sperone

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Nella notte tra il 16 e il 17 agosto è improvvisamente mancato all’età di 83 anni Marco Brignone, banchiere e imprenditore, appassionato d’arte attento e sensibilissimo. «Il Giornale dell’Arte» lo ha intervistato nel Vedere a Torino allegato al numero di novembre 2018 e in precedenza aveva dedicato alla sua cospicua collezione di arte contemporanea un ampio reportage in «Vernissage». A Gian Enzo Sperone, amico personale di antica data, che aveva condiviso la sua passione vivace e intensa per l’arte, abbiamo chiesto un ricordo che ci ha dettato poche ore dopo la scomparsa.

Domenica 14 agosto è uscito di casa la sera tarda senza alcun scopo apparente. Non è più rientrato né ha lasciato un messaggio, tipo un biglietto, un pizzino: niente di niente (ma che fretta aveva?). Non risulta d’altro canto che si sia cambiato la camicia o avesse con sé la carta di credito. Ma dove vuole andare signore? È molto tardi e lei non ha nemmeno la scusante di accompagnare il cane, visto che dispone di un ampio giardino, tra l’altro curatissimo, e in più il cane non ce l’ha.

Il soggetto in questione risulta essere Marco Brignone, non uno smemorato qualunque, ma uno di quei torinesi anomali, visionari che sembrano aver sempre fretta come se avessero in tasca un biglietto aereo che sta per scadere. Sembra anche che fosse un ottimista impenitente. Parrebbe aver avuto un appuntamento (ma non esistono prove) con il suo gemello astrale che aveva una certa frenesia di accompagnarlo verso l’ignoto. Detto fatto sembrerebbe che questa impervia missione sia andata a buon fine. Il suo gemello astrale era molto zelante. Vediamo poi se ci saranno le condizioni, come e quando, per avere un riscontro che le cose siano andate effettivamente così. Ora lasciamo parlare altri: io per esempio. Per quel che mi riguarda non mi sarà facile accettare il fatto ed elaborare il lutto.

Le cose stanno così: una persona molto speciale, piena di fascino e di stile, non si può piangere né rimpiangere. Deve ritornare; punto e a capo. Vorrei pure dire una parolina al suo gemello astrale. Di tipi così ne nascono pochi e perché mai? Hanno una vita apparentemente normale e felice con tutti i corollari del caso ma, presto o tardi, occorre loro un nuovo incontro con un’entità sconosciuta giusto per affrontare un’esperienza nuova. In un impeto di generosità deve avere attirato nel suo cuore aperto alle emozioni forze sconosciute e forze ostili. Molto tempo prima tra l’altro aveva già lasciato entrare un tarlo, non un tarlo qualunque che si mangia i vestiti e il legno, ma il tarlo dell’arte, non meno famelico. Un attimo di distrazione?

L’arte la si incontra qua e là nella vita senza preavvisi, non necessariamente in un laboratorio, e ha molte facce e non si sa che fa di mestiere e che razza di chimica sottintenda. Si può tradurre in equazioni un mistero? No, se no, che mistero è? Ma, come l’amore, muove il mondo. In Tibet quando muore (che brutta parola) il Dalai Lama partono schiere di monaci particolarmente perspicaci su e giù per le montagne, ognuno con una bisaccia piena di oggetti non necessariamente sacri, ancorché appartenuti al sant’uomo appena spirato, e mescolati ad altri insignificanti. Dei molti bambini setacciati nelle loro case fuligginose uno solo riconoscerà gli oggetti del Lama scomparso e pertanto ne diventerà il successore. Un miracolo ripetutosi per secoli. Ora sembra non sarà più così. Da noi quando muore un papa se ne fa un altro.

Ma torniamo al mio amico che, invece di raggiungere il Buddha, si è diretto forse altrove a braccetto con il suo gemello astrale. Contagiato dall’arte ma perfettamente inserito nella vita normale, che comunque è lo specchio deformante dell’arte stessa, egli era diventato un esempio perfetto della casualità delle vocazioni. Quella dell’arte che consola e turba, e intanto decora la nostra intera vita, è stata il pretesto per un ex banchiere come Marco per ingaggiare un corpo a corpo con la coscienza. Mica è stato facile trasgredire i patti con la sua razionalità.

Arrivano belle ossessioni nobilissime e tormentose. L’arte in qualche modo (ma quale?) è anche il mondo degli adulti rimasti volutamente bambini, il mondo dei balocchi, delle favole, ma lì la regola è che le cose non sono necessariamente quello che sono e tantomeno quello che sembrano. Alambicchi instancabili filtrano ogni minuto poltiglie inodori e inespressive per poi rilasciare il distillato di un nettare inebriante. Ma per un ex banchiere accettarsi nel nuovo ruolo di fiancheggiatore dell’irrazionale non deve essere stato facile. Ultimamente si era messo a studiare le proprietà del luppolo per poterlo coltivare e arrivare a produrre una birra ad personam, tagliata come un abito su misura per chiunque. Aveva già testato i terreni. Un’impresa donchisciottesca molto simile alle aspirazioni degli artisti, con la differenza che gli artisti creano e producono per sé. Qui parliamo di curiosità e vitalità a getto continuo e all’ennesima potenza.

Marco aveva anche un orecchio speciale non coltivato come quello dei musicofili o dei musicisti, ma in grado di non confondere il suono argentino delle armonie artistiche con quello che altro non è che un rumore, nemmeno un suono (ma quello della vita lo riconosco anche io). Non c’è sincerità o malizia in questa attitudine: c’è il dono indefinibile che alcuni hanno e molti altri no. Era diventato anche velocissimo nell’individuare i profumi rispetto agli odori molesti: salvo deliziarsi con quelli della buona cucina. Maestro di vita? Per me sì. Era diventato un collezionista arruolato, e quindi non imparziale, di quelli che senza sforzo apparente fanno la differenza. Bisogna scegliere continuamente e non si sa con quale criterio.

Il semplice atto della scelta continua incide sul percorso delle cose dell’arte. Chi poi, avendo scelto compra, e non necessariamente a buon prezzo, nient’altro che un sussurro, una suggestione linguistica (compresa la rottura dei canoni), per questo fa cultura. Non deve nemmeno scrivere una riga di analisi inerente al fatto per chiarire i perché. Così facendo indirizza esattamente, come i critici d’arte, i percorsi della storia dell’arte. Guai a sottovalutare questa particolare magia dei randagi quali sono i collezionisti. Non c’è cervello di professorone, o filosofo o scienziato, che possa spiegare le alchimie dell’arte, inclusa la passione dei collezionisti. In effetti c’è chi può fiutare i venti prima di tutti e approdare a un porto sicuro. Sguazzarci dentro senza perdere la rotta è prerogativa dei timonieri, ma il canto delle sirene lo sentono in pochi: i predestinati.

Come sentire e sognare quello che ancora non esiste?
Io, che sono stato un fortunato amico di Marco Brignone e per buona parte della mia vita un mercante d’arte, suggerisco di alzare il cappello (che non ho mai portato) e il calice per festeggiare comunque questo suo viaggio. Tra l’altro, nelle sue ultime volontà, molto predatate rispetto all’evento di poche sere fa, c’era la richiesta di avere nel carro funebre una canzone di Louis Armstrong sparata a tutto volume. Ecco un altro esempio su come irridere i modi e le mode del nostro tempo. Il percorso dell’arte passa anche attraverso trasgressioni minime di un comune mortale. Marco non ha mai smesso di vagheggiare la leggerezza dell’arte contro la sguaiataggine dilagante. In qualche modo non ha mai smesso di aggiornare i canoni e talvolta romperli.

Con immenso dispiacere,
Gian Enzo Sperone
 

Marco Brignone e Gian Enzo Sperone (a destra) nello studio di Peter Halley

Gian Enzo Sperone, 29 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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