Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliE così si è svegliato anche Daniel Druet, ceroplasta provetto, che ora chiede di essere accreditato come autore di alcune celebri sculture di Maurizio Cattelan realizzate nel periodo in cui collaborò con l’artista. Giusto per non farci capire (come non bastasse il lungo tempo trascorso dai fatti) che sta puntando al quattrino, estende la richiesta di risarcimento a Emmanuel Perrotin, gallerista francese di Cattelan, e alla Monnaie de Paris, che a suo tempo espose qualcuna delle opere che Druet dice di aver fatto.
Druet è come Philippe Curtius, maestro di Madame Tussaud, o come la bolognese Anna Morandi Minzolini, cioè un più che corretto anatomista capace di contraffare in cera le fattezze umane: infatti il teatro delle sue imprese è il Musée Grévin, mica il Pompidou, per dire. Nulla a che fare neppure con l’«Orsino ceraiuolo», Orsino Benintendi, che secondo Vasari giunse a frasi eccellenti nell’arte del ritratto alla bottega del Verrocchio.
Certo, Druet era perfetto per le idee che venivano a Cattelan nei suoi anni migliori. All’artista serviva la contraffazione iperrealistica e straniante del vero, e quindi era affascinato dai ceroplasti così come dai tassidermisti, e per un po’ se ne è servito. Ma si trattava di un artifex, di uno dei numerosi portatori di una sapienza altoartigianale cui un artista normalmente ricorre.
Vogliamo parlare di ceramica? Se Davide Servadei rivendicasse di essere autore di tutto ciò che ha fatto per fior di artisti con la bottega Gatti, così come uno dei Mazzotti albisolesi o il vecchio Manlio Trucco, ci starebbe dentro la gran parte dell’arte che ci interessa. E che dire di Pierluigi Ghianda, una leggenda dell’ebanisteria, che metteva le proprie mani ai prototipi e alle opere di Gae Aulenti, Cini Boeri e dei fratelli Castiglioni? Che Druet sia bravo nel suo mestiere, è un fatto indiscutibile. Ma che le opere siano a pieno titolo di Cattelan, è altrettanto evidentemente incontrovertibile.
Che esista un livello tecnico di collaborazione più elevato della semplice manovalanza è un fatto che le avanguardie del secolo dovrebbero averci reso familiare, e per nulla stupefacente: poi, forse, si può discutere se si tratti di apporti che è necessario sempre dichiarare, oppure se sia solo facoltativo e dipenda dalla sfericità dell’ego dell’autore.
Stabilito che Druet non ha lavorato gratis, e che era consapevole di lavorare per Cattelan, così come fanno ogni giorno decine e decine di maestranze a vario livello del mondo dell’arte (Damien Hirst è arrivato anche a celebrare l’abbondanza di assistenti alle sue dipendenze al tempo degli «Spot painting»), non c’è nulla che dimostri un suo contributo originale alla realizzazione: la figura dell’artifex, fondamentale nel lungo periodo, e sono stati secoli, in cui l’arte era solo una roba da «vili meccanici», presuppone la capacità di rifare, appunto, una cosa già vista, non di inventarne una nuova; a un altro livello, quanto alle collaborazioni basterebbero esperienze come quelle di Olafur Eliasson per dirci come oggi la faccenda di fare l’arte si mostri molto diversa da un tempo.
Che poi la questione sia riducibile a incassi e percentuali è un’altra faccenda: sul piano morale, se questo termine ha ancora un senso nel mondo dell’arte, mai una diversa attribuzione di paternità di un’opera può essere riconosciuta in una situazione come questa.
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