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Redazione GdA
Leggi i suoi articoliPatrizia Sandretto Re Rebaudengo - Collezionista
Amo le opere che mi fanno pensare Anche grazie al film di Paolo Sorrentino, vincitore dell’Oscar nel 2014, siamo tornati a parlare della bellezza. Ci siamo ricordati che viviamo nel Paese della «grande bellezza» e che tutta la meraviglia che ci circonda fa da sfondo a un presente complicato e spesso smemorato.
Le opere d’arte (un film, una scultura, un video) evidenziano i significati profondi delle parole e delle idee, le rimettono in movimento, tracciando itinerari singolari. A noi spetta il compito di fidarci, di essere curiosi. Quando scelgo un’opera, il mio metro di giudizio non è la bellezza. Cent’anni fa Duchamp ha spostato l’attenzione sui concetti, trasformando oggetti ordinari in opere che sono palestre della mente. Ci ha insegnato che la bellezza non sta sulla superficie ma in profondità, nella sfera invisibile del pensiero e delle sue evoluzioni. Amo le opere che mi fanno pensare. Così, non definirei bella una scultura di Josh Kline, l’artista che, insieme a Ed Atkins e Harun Farocki, è uno dei protagonisti delle personali ora in corso in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Di fronte alle sue sculture (donne e uomini replicati perfettamente con una stampante in 3D, chiusi in sacchetti di plastica come se fossero spazzatura, perché hanno perso il lavoro) la bellezza è l’ultima cosa che viene in mente. Ciò che mi colpisce è la forza e l’esattezza con cui Kline riesce a rendere concreto un orizzonte di questioni: crisi, disoccupazione, reddito di cittadinanza. La bellezza sta allora proprio in questa sua forza e nella capacità di coinvolgerci. Sono queste emozioni che di fronte a un’opera o dopo aver visitato una mostra ci fanno esclamare: «Bellissima!».
Luca Beatrice - Critico e curatore
Non occorre la bellezza: ci sono elementi più interessanti Nel 2017 saranno passati esattamente cento anni dal primo ready made di Marcel Duchamp. Un gesto che ha cambiato per sempre la storia dell’arte, spostando l’attenzione dall’ipotetica qualità intrinseca dell’opera al contesto. Poiché qualsiasi cosa esposta dentro un museo o una galleria sufficientemente qualificata è arte, parlare oggi, dopo un secolo, di bellezza risulterebbe fuorviante e senza senso. Piuttosto l’arte deve toccare corde diverse, sapersi proporre in tutta l’urgenza necessaria, muovere il pensiero e alimentarlo con scelte coraggiose. Il rischio maggiore è, per contro, l’accademismo del concettuale, pericoloso e superfluo almeno quanto il fascino del rétro. Per rispondere alla domanda, oggi nell’arte non è necessario né interessante parlare di bellezza poiché ci sono argomenti molto più affascinanti da affrontare.
Angela Vettese -Storica dell’arte, direttrice ArteFiera
L’arte non può sfuggire al relativismo La bellezza credo nasca da ragioni riproduttive, legate quindi a tutta la natura e tese a connotare valori che segnalano salute e crescita armonica, come la simmetria e la vivacità. Nell’uomo tutto questo si complica, per cui un «bel» giardino deve avere ampie dosi di asimmetria, irregolarità, ribellioni alla norma. Ciò che le avanguardie storiche hanno demolito è stata la necessaria equivalenza tra bellezza e arte, ma una parte della cultura filosofica aveva già smontato da tempo la concezione medievale per cui buono, bello e vero «inter se convertuntur», cioè sono traducibili uno nell’altro. Il tema, quindi, passa dalla biologia all’antropologia, dalla psicologia alla storia del pensiero. Ciò che viene percepito come bello in differenti tempi e culture è drammaticamente diverso: non dimentichiamo che per rendere più belle le donne di alcune comunità si spezza loro il collo con anelli, si lima loro la pelle del viso, si trasformano i piedi in zoccoli. Perché l’arte dovrebbe fuggire da un evidente relativismo, che tocca tutta la sfera del percepibile? Dovremmo ritornare a essere kantiani o tomisti. Possiamo dire che un quadro di Francis Bacon in cui il protagonista vomita nel wc è bello? Certo, possiamo. Ma non disponendo più, in quanto cultura occidentale, di una definizione universale di bellezza, non sappiamo perché.
Marco Vallora - Critico e giornalista
Dopo Duchamp, non limitiamoci al bello estetico No, certo che no, in realtà non ha più nessun senso parlare di bellezza, in senso tradizionale (allora meglio sarebbe trovare altri sinonimi più sensati, più ragionevoli). Di fronte a dei Paolini, dei Kounellis, dei Mauri, dei Parmiggiani, e altri ne dimentico, ma anche nei confronti di un collage di Schwitters (che pure è ancora oggettivamente «bello». Ma lui da buon dadaista antiarte, si sarebbe indignato di questa coccarda), che senso ha limitarsi ancora al bello estetico, se altri significati (la profondità concettuale, l’intensità espressiva, l’enigma dell’invisibilità) si profilano come più pregnanti? Di fronte all’intelligenza ermetica di un Duchamp, l’idea del Bello si fa misera, kitsch, adatta forse soltanto alle scemenze dorate e glamour d’un water closet patinato. E basta con lo slogan madonnina del «Bello che salverà il Mondo» e che non salverà nessuno: bacio Perugina che Dostoevskij non ha mai proferito. Allora meglio seguire l’intuizione di Paolini, che sul distico di Dürer, «che cosa sia Bellezza non so» ha ricamato pagine illuminanti. «Estranea comunque a ogni definizione, la bellezza è allora parente stretta dell’infinito, della vertigine dell’interpretazione: è posta al di qua, sulla soglia: presidia la soglia del luogo che dovrebbe ospitare la sua immagine. Non è dunque infinita, ma s-finita». Rilke ringrazia. Come osservava sant’Agostino: «So bene che cosa sia il Tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo». Così l’indicibilità, l’imprendibilità della vera Arte. Che esiste ancora.
Flaminio Gualdoni - Storico dell’arte
Al disgusto programmato preferisco Gauguin La tahitiana cui Gauguin mostra una riproduzione dell’«Olympia» commenta che «è proprio bella». Aggiunge l’artista: «Sorrisi a questa riflessione e ne fui colpito. Aveva il senso del Bello! Ma cos’avrebbero detto di lei i professori della Scuola di Belle Arti?». Penso sempre allo stupore di Gauguin, e a tutto il dégoûter programmatico del secolo che è appena finito. E confronto quei sogni grandi e una realtà d’arte autorizzata fatta perlopiù di creativi, di piccoli accidenti nati per piacere o per non piacere, ch’è lo stesso. «Non si inventa una bellezza ogni anno», ha detto Picasso, che pure è stato il grande alibi di quasi tutti. Ma questa citazione non c’è mai, tra le sue frasi celebri.
Alessandro Rabottini - Curatore, direttore Miart
Non soltanto è opportuna, è un bisogno primario Innanzitutto credo che sia abbastanza complesso definire un unico canone di bellezza nel contesto dell’arte, e quindi inquadrare il problema di quale canone le avanguardie e le neoavanguardie del secolo scorso abbiano sovvertito. Il concetto di bellezza, per limitarci soltanto alla storia dell’arte occidentale, è cambiato nei secoli costantemente, per cui quella che potremmo definire la sua «revisione» è in realtà una dinamica che attraversa non soltanto il XX e il XXI secolo. Potremmo arrivare a dire che non è stata una prerogativa del Novecento quella di spostare i limiti dell’arte, né di includere le categorie del brutto e del grottesco nei linguaggi della rappresentazione. Cioè che, invece, è avvenuto e continua ad avvenire, non ha strettamente a che fare con la categoria del «bello» ma con l’ammissione che l’arte visiva può andare oltre la visione e, di conseguenza, fare appello ad altre facoltà e ad altri sensi. Certo, oggi possiamo fare riferimento alla bellezza anche quando parliamo di opere che non sono nate con quell’intento, ma questo fa parte di una fisiologica tendenza, non solo dell’arte quanto della mente umana in generale, ad ampliare certe categorie fino a superarle per inventarne di nuove. E con l’inclusione nel terreno delle arti visive della relazione con lo spazio, dell’immagine in movimento, della performatività, del suono, delle dinamiche sociali e così via non soltanto credo sia tuttora opportuno parlare di bellezza, ma di un bisogno primario e assolutamente presente nell’uomo di cercare e creare bellezza ovunque.
Dario Pappalardo - Giornalista «la Repubblica»
È un’esperienza e un percorso da condividere La bellezza dell’arte contemporanea tale è se è esperienza. Il «bello» e il «brutto» sono categorie gettate dalle avanguardie del Novecento in un cassonetto ormai vecchio di un secolo. Eppure qualcosa vogliono ancora dire. L’arte del XXI secolo dispiega la sua potenza (bellezza?) quando non cede alla disumanizzazione e riesce a stabilire un contatto con chi la guarda. O meglio: con chi la attraversa. Perché il bello, oggi, non è negli shock che non scioccano più, lucidati in vetrina, ma negli incontri tra artista e spettatore che diventano tracce di un percorso da condividere. Dove ci si può imbattere nei vuoti pieni di colore di Anish Kapoor. Nelle opere totali di Philippe Parreno, che scandiscono tempo e spazio con la musica, le luci, i video senza soluzione di continuità. Esperienza sono gli altari laici di Christian Boltanski, le torri di Anselm Kiefer, l’acrilico e l’iPad del grande vecchio David Hockney, che dimostra come quello con la pittura sia un sentiero ancora possibile. Ovunque una mostra nasca da una necessità, e non da un interesse alimentato da un mercante dietro le quinte, questa genera ancora bellezza. Che vuol dire esperienza. Forse salvezza.
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