Flavia Foradini
Leggi i suoi articoliLa mostra che dal 13 settembre al 9 marzo 2025 l’Albertina modern di Vienna dedica a Erwin Wurm in occasione del suo settantesimo compleanno («Erwin Wurm. Die Retrospektive zum 70. Geburtstag») non è la prima che il museo viennese realizza sull’artista austriaco, ma è certamente la più ampia, e comprende tutti i maggiori highlight di quasi quattro decenni di produzione. Un centinaio di sculture, dipinti, disegni e fotografie raccontano di un percorso variegato anche se attraversato da un filo rosso: «Ho sempre cercato di collegare due istanze: da un lato l’interesse per il concetto di scultura e parallelamente quello per istanze che riguardano la nostra società e il nostro tempo. Con la selezione di lavori operata assieme alle curatrici Antonia Hoerschelmann e Lydia Eder il mio intento è che appaiano evidenti le connessioni fra i diversi gruppi di lavori che ho creato nel corso degli anni», ci dice Wurm nel suo vasto e composito atelier immerso nel paesaggio collinare della Bassa Austria: in tutto 12 edifici di varie epoche, e nel verde del parco in cui sono disseminati emergono numerose sue sculture di grandi dimensioni, prima fra tutte una delle quattro iconiche «fat house».
Aprirà i suoi padiglioni e il parco al pubblico, come fanno ormai tanti colleghi? Questo complesso ha poco da invidiare a un museo.
Non ci penso proprio, i lavori vecchi non mi interessano, io guardo avanti. Le mie opere sono in un centinaio di musei in giro per il mondo e questo per me è molto più importante che avere un museo mio. Chi ci verrebbe, poi? Vedo bene che cosa succede ai miei colleghi che hanno aperto un museo: devono continuamente fare mostre, eventi. Troppo difficile.
Sta creando invece una fondazione...
Perché ho 70 anni e ho dei figli e una moglie giovane e se non ci si occupa in tempo del proprio lascito, poi dopo la morte arrivano i guai. Con Skira stiamo anche realizzando il catalogo ragionato e questo mi rallegra molto: ci vorrà un po’ perché sono molte opere, lavoro molto, sono un workaholic.
La sua formazione avvenne a Salisburgo e soprattutto a Vienna tra il 1979 e il 1982.
In realtà volevo diventare pittore, ma all’esame di ammissione in Accademia mi hanno messo nella classe di scultura. All’inizio ero molto frustrato.
Dove ha trovato i suoi maestri?
Molti nella letteratura, nella filosofia. Ho sempre amato Fontana, anche Beuys. Amo ancora Picasso, ma non c’è nessuno che vorrei imitare.
Nemmeno i surrealisti?
Sono arrivato all’arte attraverso il Surrealismo. A 13 anni ne ero entusiasta ma poi mi è passata. Anche il Realismo fantastico non mi ha interessato a lungo, però da adolescente lo trovavo super. E sono cresciuto con i fumetti, il mio grande eroe era Paperino, l’eterno perdente.
È un artista pop?
La mia arte ha elementi surrealisti e pop. Ha naturalmente anche a che fare con il consumismo.
Quindi come si definirebbe?
Sono uno scultore. All’inizio i miei principali riferimenti erano la Minimal art, l’Arte concettuale, la Land art, il Pop. Ma quelli erano i padri che dovevo lasciarmi alle spalle. Quindi mi dissi che dovevo fare qualcosa di diverso, non volevo finire con l’essere l’ultimo della fila e allora, siccome non avevo soldi, ho cominciato a fare sculture con materiali di scarto. Ebbi un po’ di successo, si fecero avanti un paio di galleristi e di collezionisti, feci un paio di mostre in musei. Però ho deciso presto che non era abbastanza e mi sono messo a pormi domande e a sperimentare: sulla bidimensionalità e sulla tridimensionalità, su involucro, pelle, massa, volume, peso, materiale, tempo. Restare fermi in un posto per un po’ è comunque un’azione. Ma può diventare una scultura? Che cosa devo fare per farla diventare una scultura? Devo espandere l’azione o devo congelarla, o devo rallentarla? Col tempo mi sono reso conto che il punto di partenza poteva essere qualsiasi cosa avessi attorno, che si trattasse di materiali, oggetti o flussi di pensiero, o temi del nostro tempo.
Un primo punto di arrivo fu quando si orientò verso sculture di breve durata.
I grandi scultori del passato lavoravano per l’eternità, ma una sorta di pendant alla fugacità della nostra epoca è una scultura che duri poco. Le faccio un esempio: avevo addosso un pullover, lo tolsi, lo fissai al muro con due chiodi, smise di essere un maglione e diventò qualcos’altro, e dopo la fine della mostra lo potei indossare di nuovo. Quell’azione conteneva dunque sia l’inizio dell’opera sia la sua fine. Da lì ho creato sculture «fugaci», cioè brevi situazioni che sono azioni, quindi non sculture in senso classico. Però non solo maglioni che se ne stanno lì appesi a un muro, bensì sculture con persone.
La metà degli anni ’90 segna l’inizio delle «One Minute Sculptures», che nascono in realtà come soluzione a un problema.
C’era in programma una mostra a Brema e ho chiesto al gallerista se fosse d’accordo che sviluppassi la mostra direttamente in loco. Lui andò un po’ in ansia ma nei dieci giorni che precedevano l’apertura preparai quel che serviva. Anche io ero un po’ in ansia, e invece ebbi commenti molto positivi. Tutto d’un colpo era cominciato qualcosa di super, e ho deciso di continuare su quella strada.
Le sue «One Minute Sculptures» sono di solito provviste di istruzioni per chi nel pubblico si voglia cimentare, c’è quindi una sorta di drammaturgia e di regia, e una durata. La scultura è per definizione statica. Sono ancora sculture?
Una scultura non è statica. Per vederla, per coglierla, bisogna girarci attorno e questo richiede tempo. Nelle mie «One Minute Sculptures» l’osservatore diventa attore. Io fornisco delle istruzioni per realizzare una scultura di cui sono l’autore, all’inizio firmavo anche le fotografie che venivano fatte. Possono ovviamente durare dieci secondi o due minuti: sono, per così dire, ritagli della nostra realtà quotidiana. Fin da ragazzo avevo notato che nella produzione di molti artisti c’era parecchio pathos, grandi questioni come la vita e la morte, da dove veniamo ecc. Era un pathos talmente pesante e potente da far tremare i muri. Però il pathos annichilisce la gente, la fa impietrire. Io volevo invece offrire una leggerezza capace magari di far levitare gli osservatori. Sono pieni di pathos l’Azionismo viennese e il Surrealismo: sono pesanti, teatrali, e io questo non l’ho mai voluto. L’Azionismo peraltro ha fatto il suo tempo. Oggi la società ha bisogno di altre domande e risposte. Il modo in cui trattavano le donne e la loro furia distruttrice sono parte del passato. Già da giovane non volevo avere nulla a che fare con quelle cose. Quindi ho pensato che forse non sono i grandi temi a essere importanti bensì quelli piccoli piccoli: che cosa mi metto stamattina, dove vado domani, chi incontro, che cosa mangio, tutte queste minuzie che in realtà sono gli elementi veri della nostra vita. Comunque sapevo che quelle «One Minute Sculptures» erano molto contigue allo slapstick. Quindi finora ne ho fatte solo 107 e ho fatto attenzione a che si svolgessero in stringenti contesti museali.
Non pensa, per le «One Minute Sculptures», di avere una concorrenza serrata da TikTok, dalla pubblicità, dall’IA e dalle infinite possibilità di software e web?
Mio figlio un po’ di tempo fa mi ha detto: «Proviamo con ChatGPT» ed effettivamente in un attimo sono arrivate un tot di immagini. C’erano molte schifezze ma un paio di cose erano interessanti. Allora ho traslato un’immagine in una scultura. Ma due settimane dopo mi è parsa pessima e non la esporrò mai. Fra vent’anni chissà che cosa sarà possibile fare, però io sono abbastanza vecchio da non pormi il problema. Quando le «One Minute Sculptures» divennero molto note, venni chiamato da tanti fotografi di moda e pubblicitari. Mi proponevano delle collaborazioni ma ho sempre rifiutato.
Ma ha fatto una serie con Hermès.
Sì, ma non era pubblicità. Erano sculture.
Che cosa pensa degli Nft?
Qualche tempo fa mi sono lasciato convincere a fare un’edizione ed è andata anche piuttosto bene. Però basta. A dirla tutta: sono una stronzata.
Chi o che cosa vorrebbe raggiungere con la sua arte?
Innanzitutto lo faccio per me. Mi aiuta a districarmi nella vita e mi dà gioia. E poi c’è l’osservatore, perché il migliore dipinto del mondo, se sta in cantina, non significa niente. Ha bisogno del destinatario, di gente che lo sperimenti e lo ami. Sennò l’arte, che è fatta per noi umani, non ha rilevanza.
Che ruolo gioca l’umorismo nella sua produzione?
A me interessa l’assurdo, mi piace Beckett, mi piace guardare al mondo da una prospettiva paradossale.
Certe sue sculture hanno anche un che d’inquietante. Se si pensa alla casa rovesciata sopra il tetto del museo Mumok o la barca naufragata sopra un albergo di Vienna, o le sue statue di membra senza corpi o corpi senza membra, o la sua casa stretta e i mobili stretti, le stoviglie strette, le scarpe strette, i wc stretti, le sue case e le sue auto grasse, così paffute e coccolose ma anche allarmanti… Fa tutto un po’ Fratelli Grimm.
Sono tutte cose che hanno a che fare con la società in cui sono cresciuto. Sono nato nel 1954, era ancora la società del dopoguerra. A scuola ci picchiavano e ci umiliavano, mia mamma mi mollava ceffoni, mio padre mi pestava, c’era un rapporto brutale fra la gente. Scuola e famiglia fanno di noi quel che siamo. E questo si rispecchia per esempio nelle mie opere «strette». La casa stretta che ho presentato a Venezia nel 2011 era la casa dei miei genitori, la tipica casetta di merda da geometra, come ce ne sono in tutta Europa: una peste nera. E io ci rido sopra, infilo il dito nella piaga. In realtà io tendo alla malinconia, ma c’è un umorismo della disperazione. Ho conservato la capacità di pensare alla possibilità di ribaltare le cose negative e riesco anche a ridere di me stesso. E questo è davvero un dono. Non ce l’avevano gli azionisti viennesi e neanche Beuys. Con le mie opere cerco di dar corpo alla mia critica del mondo, ma per me la leggerezza è molto importante. Se c’è pathos, se c’è dramma, poi tutto è terribilmente difficile.
Anche le sue onnipresenti salsicce, i suoi cetrioli, i suoi sfilatini, sono citazioni?
Hanno a che fare con l’Austria e con la Mitteleuropa. Mi interessava rappresentare la gente senza far ricorso alla gente. E volevo anche scherzare. Naturalmente c’è una fatale somiglianza col membro maschile, e sono i maschi che hanno portato il mondo allo stato in cui lo vediamo. Comunque i cetrioli che ho installato a Salisburgo nel 2011 li abbracciano, gli mettono le berrette di lana in inverno, si fanno i selfie… È davvero molto interessante. A proposito: qualche anno fa a Roma non mi hanno fatto esporre né salsicce né cetrioli. In Inghilterra non hanno voluto la mia casa grassa. Mi hanno detto che c’è troppa gente obesa che si sarebbe sentita vessata. E in America non ho potuto esporre la mia serie con le istruzioni per essere politicamente scorretto. E anche in Cina non ho potuto esporre delle cose.
Si considera un artista politico?
Io sono una persona con delle opinioni politiche, ma la mia arte non è politica. Quando ho cercato di fare qualcosa di politico il risultato è stato pessimo.
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