Stefano Causa
Leggi i suoi articoliChissà che il culmine della fortuna del pittore savonese Cesare Tallone, scomparso a Milano nel 1919, non stia nell’aver servito da copertina all’edizione Mondadori di Amore e ginnastica (1892) di Edmondo De Amicis. Come un Degas in salsa sabauda l’«Alessandro Pirovano» della pinacoteca di Brera è la copertina perfetta per le pagine di quest’altro ligure fattosi per tempo torinese. Lo schermidore baffuto di Tallone non sfigurerebbe in una vicenda frizzantina di insegnanti di ginnastica, amiche zitelle, presidi, zii maturi che dispensano strategie di corteggiamento a nipoti trentenni che ne dimostrano cinquanta. Si muovono dentro appartamenti bene di Torino o all’ombra di pianerottoli buoni a incontri casuali, ovviamente fugaci. Si discetta di ginnastica da insegnare nelle scuole (come già si faceva nella Germania guglielmina), tra mille riserve e qualche timore (la «ginnastica sforma il bel sesso»), per quanto già Parini avesse avvertito: «che non può un’alma ardita | se in forte membra ha vita?»! Chi abbia amato La Stanza del Vescovo, il Cappotto di Astrakan o il Pretore di Cuvio sa da dove è partito Piero Chiara.
Intanto Amore e Ginnastica era piaciuto a un terzo ligure come Calvino, deciso a scortare il lettore dell’edizione Einaudi del 1971 (in copertina il saltatore in alto di Muybridge). Due anni dopo quelle pagine origineranno un film di Luigi Filippo d’Amico con Senta Berger, Lino Capolicchio e Adriana Asti (mai più così in parte nessuno dei tre). E in questo garbatissimo lavoro del 1973 (cui il costumista Giancarlo Bartolini Salimbeni si preoccupò di dare vesti, luci e mobili giusti) fa capolino il generale Antonino Faà di Bruno, dal viso irrefutabilmente umbertino e che, nell’archetto di un triennio, saltava dal set felliniano di «Amarcord» (pure del ‘73) al «Secondo tragico Fantozzi».
Tra libro e film si naviga sapientemente tra il dire e il non dire, tra il vedo (pochissimo) e il non vedo; ma sarebbero bastati due o tre anni, oltre a un netto calo di pretese, perché l’amore, e anche la ginnastica, da De Amicis compressi più che compresi, esplodessero, in tutti e con tutti i sensi, nel filone scollacciato (si dice ancora così?) del nostro cinema. Tra dottoresse, soldatesse, liceali e assistenti sociali, quei film, che da alcuni anni stiamo rivedendo in ragione e razione di pillole quotidiane sui social, sono il canto e il discanto del decennio delle stragi. Quanto all’insegnante di ginnastica, diverrà un topos di un regista non privo di guizzi, Nando Cicero, l’uomo di «Ultimo tango a Zagarol» (uscito nel 1973). Spalle e caratteristi dalle inflessioni diverse come Enzo Cannavale, Renzo Montagnani, Mario Carotenuto, Lino Banfi e Gianfranco d’Angelo dirigono il coro degli allupati perenni capitanato, come tutti sappiamo, da Alvaro Vitali.
Sulle ovvie derive del romanzo di De Amicis, D’Amico aveva visto giusto. Trasposto in epoca fascista Amore e Ginnastica è un preludio di «Amarcord»; anche se noi lo rileggeremo come anticipo di Pupi Avati che su mezzi toni, luci basse e stilizzatissima mortificazione dello stile ha definito lo scheletro del suo cinema. Ignoro se avesse pensato di trarne una sceneggiatura. A farlo, e benissimo, furono altri, mentre la locandina del film (1973) spiega in che termini l’erotismo di Amore e ginnastica («un misto di sensualità ardente e tenerezza infantile» dice De Amicis) fosse sul punto di esplodere nell’onanismo dei ragazzi felliniani di «Amarcord». Così Don Cenzani che, dall’abbaino del soppalco, ammira la Pedani mentre insegna ginnastica a un’allieva è già l’Alvaro nazionale che, mugolante dal buco della serratura, spia la Fenech di turno sotto la doccia.
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