Il 25 giugno scorso Michelangelo Pistoletto ha compiuto novant’anni. Con l’età, è cresciuta una certa sua propensione al «far grande» e al gusto per l’evento. Nel 2009 colse l’occasione della vernice della Biennale di Venezia per infrangere a colpi di mazza 22 grandi specchi davanti a un pubblico anche un po’ turbato da quella sfida a uno dei più noti gesti jettatori: «La rottura dello specchio, ha dichiarato, ha molte interpretazioni. La prima è che, rompendo lo specchio, rompo anche la superstizione. La seconda riguarda la realtà fisica dello specchio, rompo la sua consistenza materiale, ma allo stesso tempo moltiplico le immagini immateriali che accoglie». La superficie specchiante, la moltiplicazione dell’immagine e dello spazio, sono da sempre il suo più noto marchio di fabbrica. Ma a questo punto sorge un sospetto: che Simone Isaia, l’uomo che nella notte tra l’11 e il 12 luglio 2023 avrebbe dato fuoco alla gigantesca ed ennesima versione di quella che sta a Pistoletto come Marilyn sta a Warhol, cioè la «Venere degli stracci» (stavolta alta circa sei metri e collocata in piazza del Municipio a Napoli), abbia voluto mandare al rogo, sia pure in effigie, lo «stregone» biellese che compie riti sconsiderati per ogni partenopeo che si rispetti (gli specchi sarebbe meglio lasciarli stare).
Collocata il 28 giugno, quella gigantessa, ha celebrato nella maniera più traumatica l’accensione e lo spegnimento (ad opera dei pompieri) di una immensa candelina di compleanno. Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte, il quartier generale o Factory di Pistoletto a Biella, ha pubblicato i costi totali dell’operazione (203mila euro) e ha specificato che si tratta di una donazione alla città da parte dell’artista e della Fondazione a lui intitolata: «Questa operazione per Napoli è stata decisa da Michelangelo e dal Consiglio di amministrazione perché avrebbe costituito un importante segnale per la moda globale, proprio nei mesi in cui il dibattito internazionale sulla sostenibilità dell’industria tessile sta compiendo importanti passi avanti, anche grazie a chi come noi dal 2009 opera per sensibilizzare gli attori della filiera e i consumatori, come sanno coloro che hanno seguito i nostri lavori con le Nazioni Unite e con la Camera Nazionale della Moda (...). La grande Venere di Napoli, ha aggiunto il direttore, non è cresciuta rispetto alle dimensioni dell’opera del 1967 in relazione all’ego di un artista, e neanche soltanto perché la Piazza del Municipio di Napoli ha dimensioni e proporzioni tali da imporre riflessioni importanti sulla spazialità dell’opera, ma soprattutto perché sono enormemente cresciuti la produzione e gli scarti tessili che oggi soffocano la Terra (...). È cresciuta la mole di stracci, quindi, ed è cresciuta anche la Venere che rappresenta l’umanità sulla Terra».
Ma lo stesso Pistoletto è ormai un monumento, anzi un profeta fondatore di una religione laica da quando nel 2003 ha proclamato l’avvento di un Terzo Paradiso. Senonché uno che va anche da Fazio un po’ si espone e infatti Francesco Bonami non ce l’ha fatta e su «Il Foglio» è partito all’attacco: «Michelangelo Pistoletto è diventato una Madre Teresa dell’arte contemporanea, un Sandro Pertini dell’Arte povera (...). Adesso con il rogo in piazza della sua Venere degli stracci gigante si è trasformato in un Savonarola o Giordano Bruno della storia dell’arte (...). Ma in realtà il vero piromane, concettuale s’intende, è Pistoletto stesso. Questa Venere con i suoi stracci, da quando gli è venuta l’idea nel lontano 1967, l’ha cucinata in tutte le salse possibili. Questa volta è andata in fumo». Nel 2016, all’atto della collocazione della non meno imponente «Mela reintegrata» davanti alla Stazione Centrale di Milano, Bonami fu ancora più feroce: «Chiediamo che come per la patente di guida dopo una certa età agli artisti venga fatto un esame, ogni anno, per rinnovargli il permesso di fare arte».
Erigere monumenti è un rischio per qualsiasi artista, specialmente se ti chiami Michelangelo e non sei Buonarroti, con tutto che anche il vero Michelangelo subì le sue brave contestazioni. Il gallerista Luciano Pistoi non amava la magniloquenza dell’artista biellese: «A Torino una volta quella che oggi si chiamerebbe politica culturale era dominata da Casorati (...). Dovessi rintracciare il vero prosecutore di Casorati oggi, citerei Michelangelo Pistoletto. Rivedo in certa sua produzione, in particolare quella degli specchi, lo stesso raggelante mondo casoratiano del “Concerto” (...). C’è in quel quadro la sottile presunzione di chi si accinge a “fare il capolavoro”, e purtroppo è la stessa attitudine che ritrovo in certe cose di Pistoletto. Lui aveva esordito, come quasi tutti i giovani pittori di quegli anni, con dipinti molto influenzati da Bacon, esposto, allora, da Beatrice Monti; ma alcuni di quei dipinti di Pistoletto, quelli con i fondi oro o argento, li trovavo molto belli. Gli specchi iniziò a produrli intorno al 1962, quando, rotti i rapporti con il suo mercante, Tazzoli, convinse Gian Enzo Sperone ad aprire una galleria a Torino. Io trovo che in quegli specchi potrebbero riflettersi quelle donne casoratiane, quei nudi mortificati e tristi (...). Però, a differenza di Casorati (...) Pistoletto ha delle grandi idee; e per questo è secondo me, con Paolini e Fabro, tra gli artisti italiani che negli anni Sessanta hanno cambiato il modo di fare arte».
Che avesse delle grandi idee se ne accorse lo stesso Germano Celant, che non a caso, nel «manifesto» dell’Arte povera («Appunti per una guerriglia», «Flash Art», n. 5, nov.-dic. 1967), apre proprio con lui l’elenco dei suoi «apostoli», e lo fa con parole importanti: «Così Pistoletto (come Warhol, Mari e Grotowski) si è posto sin dal 1964 il problema della libertà del linguaggio non più legato al sistema, alla coerenza “interiore”, e ha realizzato nel 1966 opere estremamente “povere”, un presepe, un pozzo di cartone con tele spaccate al centro, una bacheca per vestiti, una struttura per parlare seduti, un tavolo fatto di cornici e quadri, una foto gigante di Jasper Johns, una lampada a luce di mercurio (...). Un libero agire, invincolato e imprevedibile (nel 1967 un sarcofago, una casa dipinta con estrema libertà cromatica, una sfera di carta di giornali pressata, un corpo ricoperto di mica), un frustrare l’aspettativa, che permette a Pistoletto di rimanere sempre al confine tra arte e vita».
È il Pistoletto post-specchi (lamiere di acciaio inox lucidato su cui prima sono incollate fotografie su velina e poi sono stampate serigrafie) quello in cui Celant riconosce il perfetto poverista. È l’autore degli «oggetti in meno», vale a dire opere strategicamente concepite secondo stili e caratteristiche diverse, proprio per mettere in crisi il criterio della riconoscibilità e dell’autografia, indispensabili alla speculazione mercantile dell’arte. Ed è il Pistoletto che avrebbe avuto il coraggio di voltare le spalle alle profferte del mercato americano, di Ileana Sonnabend e di Leo Castelli e dunque la codificazione come artista pop.
«La differenza tra il mio lavoro di allora e quello dei pop-artisti, dichiara nel 1984 a «Il Giornale dell’Arte», era che io cercavo una partecipazione totale, mentre gli altri cercavano l’oggettività in una visione soltanto americana, non salivano in cielo ma stavano sulla loro terra, la loro concezione del mondo era la concezione americana, quindi il coinvolgimento era sì rivolto verso l’esterno ma a un esterno limitato, nazionale. Il mio invece era senza patria, senza limite: lo specchio non è un fatto né italiano, né giapponese, l’uomo riflesso nello specchio non è un uomo italiano, è qualsiasi uomo». Quanto agli «Oggetti in meno», spiegò che «volendo attribuire al termine “ricco” un’accezione negativa (visto che di “ricco” e “povero” si sta parlando), potrei dire che “ricco” è prendere un’idea, una situazione, e farla crescere su sé stessa, con aggiunte, complicazioni, evoluzioni che comunque escludono il cambiamento (...). L’“Oggetto in meno” rifuggiva da tutto questo, anzi, rifiutava concettualmente l’accumulo, si sottraeva a ogni volontà di raffigurare questo ipotetico universo».
Le superfici specchianti, scoperte nel fondo brillante e resinoso di un dipinto della sua prima fase «baconiana» (figlio di un pittore e restauratore, padroneggiava alla perfezione le tecniche pittoriche), laddove alle spalle della figura dipinta si palesa non già il fondo del quadro, ma la stanza reale che vi si riflette, sono la dimostrazione che l’arte è atterrata sulla quarta dimensione, quella della temporalità (il tempo, così caro ai futuristi), di quel continuo cambiamento dell’opera determinato dall’inclusione, accanto ai personaggi raffigurati (talora gli stessi compagni d’avventura dell’autore, come in «Sacra conversazione», dove si vedono Anselmo, Penone e Zorio), dell’osservatore che si emancipa da questa funzione passiva diventando attore-coautore dell’opera.
Sebbene tuttora le superfici specchianti siano la tipologia pistolettiana più richiesta dal mercato (che viene rifornito con produzioni anche recenti), già alla fine degli anni Sessanta l’opera di Pistoletto «esce da sé» e invade il mondo con il teatro della strada, lo zoo senza più sbarre. Nel 1967 (anno di nascita dell’Arte povera) s’incaricò di liberare l’arte dalle sue gabbie (musei, gallerie) e portò, sino al 1970, un eterogeneo gruppo di spiriti liberi, ribattezzato appunto «Zoo» in giro per le vie e le piazze di paesi e città, nonché bar, teatri, a inscenare opere a metà fra il teatro e l’happening.
Anche per generazione (dopo Mario Merz era il più «anziano» tra i poveristi) Pistoletto fu inevitabilmente contagiato prima dall’esistenzialismo baconiano e poi da «modi» pop; e a dire la verità, a rivederle oggi, quante opere di quella fine degli anni Sessanta-inizio Settanta denunciano l’importanza dell’immagine e dell’oggetto oggi si direbbe iconico? Sono pop o poveriste le «Armi» di Pascali, le «Italie» di Fabro, le cifre e i numeri del primo Kounellis, le superfici riflettenti di Pistoletto, che ancora oggi, del resto, costituiscono la parte commercialmente più redditizia della sua produzione? Di qui la necessità dell’«abiura» (almeno parziale) pronunciata con gli «Oggetti in meno».
A volte le influenze sono recidivanti. Ha qualcosa di Pop, molto alla Oldenburg, anche la già citata grande «Mela reintegrata» del 2016 installata a Milano. Sarà anche per le cuciture, che la rendono un po’ yankee come una palla da baseball, come ha notato Bonami. Però poi, almeno nell’intento, ricorda un po’ lo stile di Cattelan, che del Pop è un altro discendente: quella che è reintegrata con una toppa è infatti la celeberrima mela morsa della «Apple». «L’arte, per me, è un atto eroico, non è routine né fossilizzazione», ha dichiarato a «Il Giornale dell’Arte».
L’Eroe e il Profeta sono i due personaggi che potrebbero figurare nello stemma di Pistoletto. L’uomo eternamente vestito di nero ha una parte laica e una sacra. C’è qualcosa, e forse più di qualcosa, di futurista nella volontà di cambiare il mondo attraverso l’arte, di portare l’arte nella vita e anche nell’abilità di operare su più livelli e discipline, per cui c’è del design in alcuni «Oggetti in meno» (ad esempio il «Bagno») o nella «Tenda di lampadine» (1967), che sarà sì, come dice lui, «una metafora di energia», perché queste lampadine non servono per illuminare ma per dimostrare che da questi fili esce energia, però è anche un’opera installativa con forti potenzialità in termini di arredamento; e c’è qualcosa di design futurista nel modo in cui Vitruvio incontra Depero nella forma a Y di porte, tavoli (anche da ping-pong) e panche del ciclo «Segno Arte» (1976).
Poi, nel repertorio, ci sono opere che più radicalmente rimandano a una tipologia «artistica»: e allora è concettuale nel momento in cui piazza un plexiglas attaccato a una parete e «crea» un muro; è concettualminimalista nel «Metro cubo di infinito» (1966), un cubo formato da sei specchi con la superficie rivolta verso l’interno. Negli anni Ottanta cederà alle sirene postmoderne e citazioniste presentando nel 1982 a «Documenta» monumentali sculture in poliuretano che rievocano il non finito michelangiolesco. Esse restarono comunque un episodio isolato rispetto alla prima fase della «rivoluzione pistolettiana dell’universo», una cui tappa fondamentale fu nel 1998 la fondazione di Cittadellarte, con sede in alcune fabbriche tessili in disuso acquistate dall’artista a Biella.
Volendo «ispirare e produrre un cambiamento responsabile nella società attraverso idee e progetti creativi», è una sorta di Factory New age, con una certa enfasi sulla moda. La «Venere degli stracci» ne è la dea protettrice, e lo ha ribadito il già citato Naldini: «Se abbiamo fondato una scuola, un’Accademia di Moda Sostenibile, prima in Italia ad avere corsi triennali dedicati specificamente alla sostenibilità (...) è perché le nostre radici culturali attingono proprio alla Venere degli stracci (...). Anche se ci manca il sostegno pubblico, abbiamo incontrato in questi anni molti imprenditori e istituzioni che hanno creduto nella nostra visione ancora quando non era “di moda”. (...)».
La moda, del resto, è l’ambito di Pietra, 52 anni, una delle tre figlie di Pistoletto; Cristina, nata dal precedente matrimonio, opera in ambito teatrale, mentre Armona è architetto e designer. Pietra e Armona sono nate dall’unione con Maria Pioppi, conosciuta a Roma nel 1967 e da allora, come si suol dire, compagna di vita e di lavoro dell’artista. Gareth Harris visitò nel 2011 Cittadellarte per «The Art Newspaper», partner in lingua inglese di «Il Giornale dell’Arte»: «I termini “sostenibilità” e “responsabilità” sono un mantra tra i corridoi di Cittadellarte, dove il personale si rivolge a Pistoletto con la dovuta riverenza (un impiegato lo definisce addirittura “profeta”). (...) Il centro è diviso in nuclei operativi chiamati “uffizi” che, tra le altre cose, si occupano di arte, didattica, ecologia, economia, politica, architettura e spiritualità (persino la caffetteria che “utilizza prodotti locali rispettosi dell’ambiente e della microeconomia del territorio” ha un suo nome: “ufficio nutrimento”). “L’obiettivo di Cittadellarte è quello di unire estetica ed etica, spiega Pistoletto. Dobbiamo ricreare un sentiero e una nuova prospettiva. Ma come conciliare, oggi, gli ideali con la mercificazione dell’arte? “A Cittadellarte spendiamo denaro e non ne guadagniamo, risponde l’artista. Ma il mio inserimento come artista nel mercato mi dà gli strumenti per proseguire nella trasformazione della società».
Sembra tuttavia, stando a quanto dicono i residenti, che nei rapporti con la città di Biella prevalga la funzione di «Cittadella», ovvero, spiegano dalla «Factory», «un’area in cui l’arte è protetta e ben difesa». Insomma, non esisterebbe una grande osmosi, benché sia visitabile la parte dove sono conservate le opere dell’artista fondatore. Tornando al sopralluogo di Gareth Harris, a quel tempo, come si è visto, Pistoletto aveva spogliato l’armatura dell’eroe e indossato la tunica del profeta. Bisogna fare un passo indietro e andare alla fine del 1988, quando l’artista proclama l’avvento dell’Anno Bianco, l’anno della luce e della redenzione dallo squallore in cui era caduto il mondo, come l’artista stesso sottolineava nelle sue sculture di quel periodo, volumi avvolti da tele dipinte con stesure materiche scure, opache; «Poetica dura», come la ribattezza l’autore.
«Da anni cerco di superare i vincoli imposti dalle dimensioni fisiche per operare in una quarta dimensione, quella del tempo, dichiarò Pistoletto al nostro giornale. L’“Anno Bianco” si compone di 12 mostre, quanti sono appunto i mesi, in 12 luoghi diversi. Sono come pietre che testimoniano del trascorrere del tempo, opere che si riallacciano al mio vecchio discorso degli specchi, esposte ad accogliere immagini sempre diverse, un eterno presente in continuo divenire. Le mie opere stanno lì, poste a riflettere l’accadimento di un anno: non solo oggetti fisici, ma strumenti di percezione e anche di pronostico. Non posso conoscere in anticipo, ovviamente, ciò che vi sarà riflesso, ma so di sicuro che qualcosa vi comparirà. È un’operazione, in altre parole, che non esclude un lato miracoloso della percezione: il quadro specchiante accoglierà ciò che accadrà domani (...). Così mi pongo io come artista d’oggi, concludeva l’artista, attivo in una ricerca che vuol comprendere in sé il futuro: è una dimensione mitica, in contrapposizione al “consumo del presente”, in altre parole il consumismo, caratteristico della nostra civiltà. Un modo di vivere e di lavorare, il mio, tanto affondato indietro nel passato quanto rivolto avanti nel futuro».
Ne scaturiranno opere, manco a dirlo, bianche: «La maggior parte, spiega Giorgio Verzotti nel catalogo che accompagnava la mostra sull’Arte povera del 2011 allestita in diverse sezioni al Castello di Rivoli, alla Triennale di Milano, al MAMbo di Bologna, alla Gnam e al MaXXI di Roma, al Madre di Napoli e al Teatro Margherita di Bari, è costituita da lastre di gesso o di marmo bianche, lisce queste, appena corrugate di microeventi materici quelle: come pagine bianche su cui scrivere, sono l’idea del progetto o meglio sono tensione alla progettualità».
Il fatto è che nel 1989 si verificò un evento destinato a cambiare il mondo, la caduta del Muro di Berlino. Fu allora che Bruno Corà, oggi presidente della Fondazione Burri, rispose indignato a un’accusa, lanciata in prima pagina in un editoriale su «Il Giornale dell’Arte», secondo la quale gli artisti avrebbero perso il contatto con la realtà e con la storia. «L’Anno Bianco di Pistoletto, scrisse Corà, si configurava come un tempo dell’Essere indetto interamente prima del suo svolgimento (...). Si possono riscontrare incredibili appuntamenti ed affinità tra l’opera pistolettiana del più recente o lontano passato con eventi della storia umana che marcano le ore palpitanti di questi mesi e settimane del 1989. (...) “Dietro Front” (1981), accoglie con evidente analogia anticipatrice la “svolta” dichiarata nella statua elevata alla “libertà” dagli studenti sulla piazza Tienan men; la frontalità dello schieramento comunitario che sorregge architravi e pilastri della città di “Anno Uno” (1981), sospesa sul capo di ognuno degli attori dell’opera di Pistoletto, sembra porsi come veggente previsione di quell’immagine del popolo di Berlino in piedi sul muro che i quotidiani hanno riprodotto nell’atto di sgretolarsi in queste settimane». Mentre «La morte di Marat» di David, «La Libertà che guida il popolo sulle barricate» di Delacroix e «Guernica» di Picasso vennero dipinti dopo che gli eventi cui si ispiravano erano avvenuti, spiegava Corà, le opere di Pistoletto anticipano ciò che accadrà.
L’artista-profeta è inarrestabile. Nel 2003 riceve il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia e in quell’occasione presenta il progetto «Love Difference-Movimento Artistico per una Politica InterMediterranea». Pistoletto idea un tavolo della pace specchiante sagomato a forma di bacino del Mediterraneo attorniato da sedie provenienti dalle diverse civiltà che si affacciano sul mare non più soltanto «nostrum» ma di tutti. Intorno a quel tavolo si svolgeranno negli anni le attività di Love Difference. Si costituisce un Parlamento Culturale Mediterraneo, la cui dichiarazione costitutiva inizia così: «In un mondo diviso da conflitti, crisi sociali ed ecologiche e guidato da ogni sorta di fondamentalismo, noi, artisti e protagonisti della cultura, affermiamo che l’arte è fonte di un nuovo umanesimo, che genera atteggiamenti responsabili in tutte le sfere dell’attività umana e ci coinvolge in un’impresa che abbiamo chiamato “Artivismo”».
Nel 2004, quando l’Università di Torino gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze Politiche, Pistoletto annuncia l’inizio di una nuova fase non solo del suo lavoro ma probabilmente di tutta l’umanità: il Terzo Paradiso. Esso è «la fusione fra il primo e il secondo paradiso. Il primo è quello in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana, fino alle dimensioni globali raggiunte oggi con la scienza e la tecnologia. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altro genere di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che, con progressione esponenziale, ingenera, parallelamente agli effetti benefici, processi irreversibili di degrado e consunzione del mondo naturale. Il Terzo Paradiso è la terza fase dell’umanità, che si realizza nella connessione equilibrata tra l’artificio e la natura. Terzo Paradiso significa il passaggio a uno stadio inedito della civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza. (...). Il simbolo del Terzo Paradiso, riconfigurazione del segno matematico dell’infinito, è composto da tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutte le diversità e le antinomie, tra cui natura e artificio. Quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità».
Se la vasta retrospettiva fino 25 al febbraio 2024 al Castello di Rivoli, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, spazierà su tutta la produzione di Pistoletto, la mostra allestita la scorsa primavera a Palazzo Reale a Milano, a cura di Fortunato d’Amico, ha posto l’accento sugli ultimi trent’anni di attività dell’artista biellese, una fase in cui si è affermato come una sorta di Joseph Beuys 2.0. Come Beuys è impegnato sul fronte ambientalista. Beuys è lo sciamano che, il volto dipinto di miele e oro, culla una lepre morta a cui spiega il significato dei quadri appesi alle pareti in una performance del 1965 o che coabita con un coyote in una celebre performance del 1974. Pistoletto è invece il profeta della «Pace preventiva» (questo il titolo della mostra milanese) che con la furia di un Cristo che devasta i banchi dei mercanti nel tempio rompe alcune decine di specchi.
Insignito del Praemium Imperiale nel 2013, ha portato ovunque e in tutte le forme i tre cerchi del Terzo Paradiso: ad Assisi nel 2010 era composto da 121 ulivi; al Louvre nel 2013 ne ha fatto una sorta di triplice aureola sospesa sulle sculture della Cour Marly; l’anno dopo alla Reggia di Venaria ne ha fatto un triplice orto; all’Avana dove ha una filiale la sua galleria di riferimento, Continua, sempre nel 2014 li ha fatti disegnare in mare dai pescherecci locali; né si è sottratto all’omaggio del 4° Reggimento Carabinieri, i cui militi a cavallo li hanno composti nella Caserma «Salvo d’Acquisto» a Roma, nel 2017.
Ha una formidabile capacità di coinvolgimento «trasversale», attirando guest star di varia estrazione e professione, da Don Ciotti a Gianna Nannini. È riuscito a convincerci che il rapporto tra arte e moda non è necessariamente diabolico e, nato in una ex capitale dell’arte tessile, sa bene, proprio come lo sa ogni grande stilista, che per garantirsi il successo occorre avere un marchio inconfondibile (il simbolo del Terzo Paradiso), una linea riconoscibile (per Valentino il rosso, nel suo caso gli specchi) e un capo di culto, come lo sono il tubino nero di Chanel: una Venere da giardino kitsch che con un po’ di stracci diventa chic.
Poi si sa, i profeti sono un po’ eretici. E anche Pistoletto (come prima di lui Beuys) non ci ha risparmiato la più grande eresia, quando ha detto durante una conversazione con Achille Bonito Oliva che «ogni uomo è un artista». Trascurando, tra l’altro (proprio lui!) l’esiziale impatto ambientale che può conseguire a simili affermazioni, in un mondo che oltre a essere strangolato dagli stracci sta affogando in una discarica di immagini.
«Non mi ero mai reso conto di quanto il Castello costituisca un punto di riferimento internazionale. Quando viaggio per lavoro, nel 90% dei casi la prima cosa che mi sento dire è: “Rivoli è il mio museo preferito al mondo”. La mia aspirazione è che i torinesi, i piemontesi e gli italiani abbiano questa stessa relazione con il Castello»
Modelli, modelle e amanti del «diavolo divino della pittura britannica» sfilano alla National Portrait Gallery di Londra. Ma la «human presence» di questa mostra non è solo autobiografia e gossip: attraverso la figura umana, tema e rovello di tutta l’arte europea, Bacon riannodò il filo spezzato dalle avanguardie storiche e, ultimo pittore «antico», anticipò quella che sarebbe diventata l’«ossessione corporale» dell’arte contemporanea, da Nan Goldin a Damien Hirst
Nella Galleria dello Scudo 15 opere dell’artista abruzzese risalenti agli anni Ottanta, ora della collezione del mercante romano
Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore