Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliNemmeno io, che pure non passo per essere un inguaribile ottimista, potevo immaginare che quando, nel novembre 2017, su questo giornale sfotticchiavo l’accordo «storico» del 15 marzo 2016 tra la famiglia Torlonia e il Mibact (allora si chiamava così) che avrebbe, si diceva, dato un destino certo alla vexata quaestio nella collezione dei marmi antichi Torlonia, mi sarei ritrovato ora, a cinque anni di distanza, a pormi esattamente le stesse domande: e non è colpa del Covid-19, beninteso, e neppure, a volerci credere, di una speciale maledizione che aleggia tenace su questa strepitosa e, ahimè, ancora in gran parte sconosciuta raccolta.
L’epidemia è responsabile solo dell’ultimo rinvio, dal 7 ottobre ad oggi, della mostra-campione in corso a Villa Caffarelli: il resto è frutto del peggio dell’ingegno umano quando si intromette in una vicenda che avrebbe potuto essere altrimenti virtuosa. L’accordo non era storico per niente, beninteso, e questo si era capito subito.
Da una parte c’erano i Torlonia, con le loro consapevolezze patrimoniali, rissosi la loro parte ma accomunati da una tenace mancanza di propensioni a favorire il «bene comune»; dall’altra uno Stato che, in un paio di batter di ciglia, è passato attraverso presidenti del Consiglio come Renzi, Gentiloni, Conte e poi Draghi, alternando ministri come Franceschini e il fantomatico Bonisoli e ineffabili sottosegretari come la Barracciu, la Borgonzoni (addirittura due volte) e la Orrico: nel frattempo, per non farci mancare niente, hanno pensato bene di far scomparire anche la Direzione generale Archeologia, ché pareva normale considerarla ridondante in un Paese come l’Italia.
L’asimmetria salta agli occhi, ancor più della differenza tra bufalo e locomotiva cantata da De Gregori. Da una parte una famiglia che a occhio e croce vuole quattrini, e tanti, forte del suo diritto e di offerte munifiche che sicuramente ha già avuto; dall’altra una compagine variabile di scappati di casa che offre di tutto ma non i quattrini che non ha, o che comunque non vuol spendere per altre «quattro statue antiche».
A far da fragilissimo diaframma c’è solo, a favore della cosa pubblica, il baluardo della notifica, ma c’è da scommettere che ha già i giorni contati e che questa sarà l’occasione per sferrare un’altra botta a un istituto che già di suo si porta appresso un bel po’ di anacronismi. Per passare dal punto A, l’annuncio tronfio dell’accordo, al punto A1, la mostra di exempla della collezione ora in corso nella Villa Caffarelli (punto ben lontano dal B, il museo pubblico scritto nel libro dei sogni), sono occorsi cinque anni.
Poi dovrebbero identificare un’ipotetica sede definitiva ecc. In mezzo, dati i tempi governativi, all’orizzonte già si vedono l’elezione del successore di Mattarella, le elezioni politiche, la formazione di un nuovo Governo e tutto ciò che ne consegue. Poi verrà il momento che qualcuno, con calma, riprenda in mano il dossier, una faccenda avviata sin dal lontano 1976 (quando il Ministero dei Beni culturali aveva appena debuttato e i ministri erano Spadolini e poi Pedini) e subito fattasi intricata, e snodi il bailamme e tutti i gorghi dell’affaire: che possa portarla alla conclusione è ipotesi che oltrepassa i confini della mia vita mortale.
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