Stefano Causa
Leggi i suoi articoliQuell’affare semplicissimo e arduo che è la divulgazione della storia dell’arte passa, nella vecchia televisione, anche attraverso le sigle. Fu nel 1994, giusto trent’anni fa che noi italiani perdemmo la chance di veder scorrere, come appuntamento fisso a ora di cena, le dodici incisioni all’acquaforte coi «Mesi dell’anno» di Giuseppe Maria Mitelli che, all’altezza del 1691, sembrano controbattere in tono medio al lessico alto e cortigiano, tronfio e trionfante di Luca Giordano e Carlo Maratta. Lontani da Roma (e Napoli), qui si rientra orecchie a terra, col fiato pesante di aglio e cipolle, muovendosi tra l’eredità dei Carracci e del Bertoldo di Giulio Cesare Croce.
Sulla scena economica e sociale della città i personaggi di Mitelli, tra i fondatori dell’Accademia Clementina, diventano «labili figure di una Bologna inquieta, violenta e fannullona, ricca e pezzente…frammenti di un macrocosmo cittadino nomade». Così prima, e forse meglio dei colleghi storici d’arte, li definiva un indagatore delle culture popolari come Piero Camporesi, persuaso che Mitelli fosse «l’interprete più vicino al mondo dei cittadineschi commerci, e dé popolari contratti».
Esaltati dal bianco e nero del vecchio monoscopio, i «Mesi» giravano a corredo di una striscia quotidiana: l’«Almanacco del giorno dopo» dove, con titolo leopardiano, dentro quindici densi minuti messi a far da gancio al telegiornale s’incrociavano saperi, proverbi, etimologie, storie di santi e saggezza popolare. Quella dimensione regionalistica dal diverso sentimento del tempo che, nel pieno degli anni di piombo, appariva un’oasi straniante: se non proprio rassicurante. Presentato inizialmente da una donna di solida bellezza come Paola Perissi il programma tenne banco dal ’76 ai primi ’90.
Però mentiremmo se non dicessimo che, per molti di noi, l’«Almanacco» è associato, incavicchiato al ricordo di una sigla, la «Chanson Balladée», uscita su 45 giri nel ’77, di un fiorentino d’adozione come il palermitano Riccardo Antonino Luciani, scomparso quattro anni fa. Naturale che ogni volta che capiti di imbattersi in quelle acqueforti torni in mente questa melodia antichizzante, a presa rapida: bugiardo chi, tra quelli che abbia superato i cinquanta, neghi di aver provato a fischiarla.
Flauto a becco in primo piano con l’accompagnamento di spinetta, viola da gamba e tamburello: un combo arcaico, spartano, efficacissimo. Convincentemente unplugged. Nulla da cui avrebbero potuto cavare alcunché di sensato Clash o Ramones. Non mancano allusioni più o meno velate al ’300 francese e al ’500 di Orlando di Lasso. Più che un revival, un travestimento pseudofilologico come l’interno della Chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli o i libri miniati che compaiono in avvio della «Bella Addormentata nel bosco». Falso geniale, a suo modo una lezione dal di dentro sulla nostra tradizione sul genere dell’«Adagio di Albinoni» di Remo Giazotto (1958), la «Chanson» di Luciani dovette far drizzare le antenne a gente abituata a camminare con lo sguardo sulla nuca come Fabrizio De André o Angelo Branduardi stesso (il cui esordio, «Alla Fiera dell’est», risale al ’76).
Se si vuole, in un paese ricco di cantanti e povero di cultura musicale come l’Italia, la sigla dell’«Almanacco» era un segno di progresso; anzi di «progressive», ove si ricordi l’interesse per Bach o Domenico Scarlatti di gruppi come, tra gli altri, le Orme, i Pooh di «Parsifal», i New Trolls o la Premiata Forneria Marconi. Com’è andata a finire? Beh, nel 1979 esce il primo album dei Rondò Veneziano di Gian Piero Reverberi, con i musicisti imparruccati e in costume che rimandano, con archi basso elettrico e batteria, l’immagine, ritmica e performativa, che il pubblico dei non addetti si aspetta di ricevere dalla scena sonora di primo Settecento; e da quella di Antonio Vivaldi in particolare. Ma questa è una storia che ha a che fare con il gusto, opinabile e soggettivo per definizione; specie quando sia cattivo.
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