Stefano Causa
Leggi i suoi articoli«Drive In». «Striscia la Notizia». «Veline». «Paperissima». E molto altro. Classe 1950 Antonio Ricci, crucialissimo autore televisivo, abbiamo ormai imparato a considerarlo tra quelli che hanno solleticato le attitudini, le attese e le reazioni degli italiani in prima serata. Come dire un sociologo o qualcosa di più e meno d’uno storico d’arte contemporanea. A lui bisognerebbe chiedere, tra i primi, come quelle abitudini siano mutate negli ultimi decenni nel transito al digitale allorché, da principale catalizzatore di attenzione, lo schermo piatto è diventato uno dei segmenti principali di un braccio lungo di informazione e intrattenimento.
Nato negli anni ’90 su Italia 1, e subito dirottato su Canale 5 a ora di cena «Paperissima sprint» parte da un assioma: la barzelletta sovranamente porta da Gino Bramieri o Gigi Proietti, la battuta, il siparietto o lo sketch di Totò, di Paolo Panelli, di Sandra e Raimondo, con cui siamo più o meno tutti cresciuti, fanno ridere, o sorridere a denti stretti (come si dice nella «Settimana Enigmistica»), a seconda delle oscillazioni del gusto, dello spirito del tempo oltreché dei tempi comici dell’attore. E gli esempi sarebbero infiniti da regione a regione, da Benigni a Troisi. D’altronde una comicità sofisticata e, di per sé, di matrice teatrale ha il neo della lentezza che in tv e, a maggior ragione sui social, equivale pressappoco a un suicidio. Roba che pretende un surplus di dedizione per chi dedichi dieci, massimo quindici secondi di attenzione a un testo, a un brano, a un quadro o a una persona, proprio come su Instagram o su TikTok. Ma lo slapstick, l’arte di cadere senza volerlo o saper cadere a comando, è un’arte senza tempo, che tempo non fa perdere. La buccia di banana non consente il piacere dell’indugio; non fa sconti a nessuno e funziona sempre.
Da oltre un secolo, e oggi più che mai, esiste un’uscita di sicurezza. Fa ridere chi cade e inciampa. Chi scivola e va a sbattere: con la macchina, la scooter, lo skate o lo sci d’acqua. Chi si ribalta; quello che cade per primo e poi, dietro, gli altri come nel domino o nella parabola evangelica dei ciechi. Quello cui esplode in faccia lo spumante e fa l’effetto geyser. Fanno ridere: la coppia che balla e lui non riesce a prenderla durante un volteggio; gli sposi che escono dalla chiesa e ruzzolano dalle scale o distruggono la torta tagliandola. Fa ridere chi si schianta con lo slittino o inciampa nell’ostacolo. Fa ridere chi non si sa regolare e corre, ma all’indietro, sul tapis roulant in palestra o in aeroporto; chi precipita dalle scale, meglio se mobili. Bum. Splash. Gulp. Come nei cartoni nessuno si fa male, almeno apparentemente (non rientrerebbe nel gioco e nei patti con lo spettatore un epilogo funesto di questi corti). Negli ultimi anni il codicillo dell’home video, cioè di filmati amatoriali inviati alla redazione, è fondamentale per capire il momento in cui il pubblico da casa si sia autopromosso: da spettatore, a complice ad attore principale.
Cadono e sbattono adulti e bambini (anche gli anziani o i diversamente giovani, senza far rumore; ma una rottura di femore non è facilmente spendibile sul piano comico); e cadono e sbattono gli animali. Per questo si aprono le porte della televisione a uno zoo domestico o moderatamente selvatico. Cani, gatti, cavalli, conigli, gechi, pappagallini, uccellini, criceti, iguane, cuccioli di tigre e lucertole: oltre a esibirsi a titolo, in tutti i sensi, grazioso, posseggono il pregio della naturalezza. Sono buffi, goffi e teneri; incespicano, non si rendono conto. Ma diversamente dalle nostre topiche amplificate in sede di post produzione (la sonorizzazione di «Paperissima sprint» è un capolavoro di aderenza), gli animali parlano in dialetto caricato. E se occorre imbastire un minimo di sceneggiatura per le papere feline; per le nostre il commento si basa su bonari doppi sensi, politicamente corretti.
Tra video amatoriali e non, la promozione dello slapstick batte decenni di comicità sofisticata. Fotocamera alla mano, diventiamo Laurel e Hardy o Keaton (ma senza fissità attonite o malinconiche che imporrebbero, in chi guarda, una sospensione di carattere narrativo, cioè culturale). Siamo tutti Fantozzi e il ragionier Filini nella scena della barca con Barambani in «Fantozzi contro tutti» (1980), uno dei vertici dello slapstick moderno senza il quale non esisterebbe la deriva di «Paperissima sprint». Siamo personaggi da cartoon: elastici e immortali. Cos’avrebbe detto un antico maestro dinanzi a questi ripetuti scivoloni? Probabilmente li avrebbe rubricati alla voce: feste, sagre paesane e intrattenimenti carnevaleschi. E, in tema di slapstick, i nordici hanno molto da insegnarci. Nelle collezioni genovesi, la serie dei dodici mesi di Jan Wildens (1586-1653), conservata nei musei di Strada Nuova, e databile negli inoltrati anni 1610 (quando il pittore di Anversa gravitava tra Roma e Genova) non manca di sorprese anche solo guardando la scena dei pattinatori dove, prima o poi, è fatale qualcuno cada. In questo caso una donna. Ligure di Albenga, chissà che Ricci non abbia fatto una capatina in Palazzo Rosso. C’è da cascar dal ridere.
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